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Enrico Letta

La democrazia deliberativa di Enrico Letta

Il Bloc Notes di Michele Magno

Ius soli, voto ai sedicenni e dote ai diciottenni: tre proposte (se interessa a qualcuno, chi scrive condivide solo la prima) destinate a non vedere la luce in questa fine legislatura. Il suo autore, Enrico Letta, quando non era ancora segretario del Pd ne formulò un’altra che forse non meritava di essere liquidata con un’alzata di spalle. In realtà, più che di una proposta in senso stretto si trattava di una ragionata esortazione a riscoprire le virtù della democrazia deliberativa (intervista al Corriere della Sera, 1 ottobre 2020).

Il tema è serio, a patto però di evitare pericolosi fraintendimenti. Perché deliberare non vuol dire — come comunemente si intende — decidere, ma indica la fase del dibattito pubblico che precede la decisione. Naturalmente, essa non  si esaurisce nella convocazione di un’assemblea in cui tutti parlano a ruota libera. Anche qui sono  indispensabili regole, procedure, presenza attiva di esperti e di istituzioni per soppesare i pro e i contro delle possibili soluzioni a un problema collettivo, circoscrivere le ragioni di un disaccordo o di un conflitto, individuare possibili punti di equilibrio e di compromesso.

Un processo dialogico, insomma, volto a formulare un giudizio non su ciò che è vero o falso, ma su ciò che è giusto o sbagliato per una comunità locale (l’unico livello in cui forme di democrazia deliberativa possono avere una reale efficacia). Non sono d’accordo con l’ex presidente del Consiglio, invece, quando invita la sinistra a non dividersi sulla concezione della democrazia diretta di Beppe Grillo. Per motivi sia di igiene linguistica che politica, anzitutto.

Infatti, gli esponenti del movimento che è ancora in attesa di incoronare Giuseppe Conte come suo leader, continuano a utilizzare entrambe le espressioni come se fossero sovrapponibili, creando in tal modo equivoci e incomprensioni. È quindi necessario, se si vuole comprendere il retroterra culturale che ha favorito prima la nascita e oggi la crisi verticale del M5s, tenere ben ferma la distinzione tra i due modelli. Tanto più se si considera che, nel lessico dei pentastellati, il termine democrazia diretta viene spesso usato come sinonimo democrazia partecipativa.

Quest’ultima è tornata alla ribalta con i movimenti new global dei primi anni Duemila. Ma le sue origini risalgono agli anni Sessanta del secolo scorso: è allora che negli Stati Uniti si afferma con un certo clamore, sulla scia delle lotte per i diritti civili di quel decennio. Anche se, in verità, tra i suoi tratti costitutivi vi era il medesimo rifiuto radicale della rappresentanza politica di cui si sottolineavano gli effetti perversi: in particolare, la passività dell’individuo massificato.

Nell’ideologia dei Cinque stelle si trova, per concludere, una duplice sfida alla democrazia rappresentativa. Come sostiene un suo acuto studioso, Antonio Floridia, la prima si potrebbe chiamare “riformista”: sviluppare alcuni strumenti di democrazia diretta — referendum, iniziativa legislativa popolare — all’interno di un sistema nel quale il Parlamento conserva la sua centralità. La seconda sfida si potrebbe definire “utopica”: superare il sistema rappresentativo per arrivare a un futuro senza partiti, in cui — grazie a un clic sul computer — ogni intermediazione tra cittadini e istituzioni scompare (Un’idea deliberativa della democrazia, il Mulino, 2017).

Queste posizioni trovano ascolto anche in ambienti intellettuali progressisti, secondo cui la crisi della rappresentanza va affrontata attraverso meccanismi che dovrebbero “departitizzare” la democrazia: ad esempio, il referendum propositivo senza quorum e il sorteggio come metodo di selezione della classe politica. Solo che così, alla ricerca delle specifiche risposte che occorre dare a specifici deficit delle istituzioni democratiche, nazionali ed europee, si sostituisce la ricerca di facili scorciatoie, dove ricette tecnocratiche e ricette populiste si alimentano a vicenda.

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