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La cultura dell’odio

Il Bloc Notes di Michele Magno L’aneddoto è noto. Mentre stava svolgendo il suo intervento nel corso di una riunione a Botteghe Oscure, un infervorato Pietro Secchia viene bruscamente interrotto da Palmiro Togliatti con questa domanda: “Che cosa ha fatto ieri la Juventus?”. Il responsabile dell’organizzazione e della propaganda del Pci, visibilmente imbarazzato, tace. Allora…

L’aneddoto è noto. Mentre stava svolgendo il suo intervento nel corso di una riunione a Botteghe Oscure, un infervorato Pietro Secchia viene bruscamente interrotto da Palmiro Togliatti con questa domanda: “Che cosa ha fatto ieri la Juventus?”. Il responsabile dell’organizzazione e della propaganda del Pci, visibilmente imbarazzato, tace. Allora il Migliore lo apostrofa, gelido: “E tu pretendi di fare la rivoluzione senza conoscere i risultati della Juve?”. Come a dire, senza conoscere gli umori del popolo a cui chiedi di ribellarsi? Per fortuna, quanto meno gli umori del “suo” popolo il Pd li conoscerà il 3 marzo. In ogni caso, l’appuntamento di fine mese resta un test importante, anche per saggiare la residua speranza di vita di un partito tramortito da una micidiale sconfitta elettorale, e che fin qui non ha trovato la forza di far sentire la propria voce.

Questa afonia non è figlia soltanto di indecenti dissidi interni e della mancanza di un leader. È il sintomo di una crisi esistenziale della sinistra che deriva dall’esaurimento della sua spinta ideale, quella che nacque in Inghilterra nel 1942 con il “piano Beveridge”. Che si tratti di una crisi comune all’intero campo del progressismo europeo non può né consolare né diventare un alibi. Non basta rappresentare gli italiani che “non hanno paura”. Occorre rappresentare anche quelli che hanno paura; non indulgendo certamente in letture pauperistiche da quattro soldi della condizione del paese, ma proponendo nuove idee, alternative, progetti.

Beninteso, la protesta contro la “cultura dell’odio” è sacrosanta. Una delle passioni politiche più esplosive che hanno seminato la violenza nel Novecento è stata proprio l’odio: nazionalistico, razziale, di classe. Dopo la conclusione delle esperienze totalitarie del “secolo breve” è sembrato che fosse tramontato. La stessa causa dell’integrazione europea si è avvalsa, quando fu concepita, della carica emotiva di un messaggio saldamente radicato nelle ragioni della pace, della tolleranza e della democrazia. Nell’ultimo decennio il quadro è cambiato. Si è infatti prepotentemente riaffacciata una cultura dell’odio avvertita ormai da molti come una pulsione positiva, non più sottoposta al tabù dell’inibizione o dell’occultamento.

Tale cultura è l’espressione del forte bisogno di identità che anima i movimenti populisti e le ideologie sovraniste, e cresce oggi pericolosamente con l’insicurezza, con il sentirsi minacciati o accerchiati. Incrementa quindi se stesso nella forma della faziosità, nel paranoico eccesso di legittima difesa. Lo osservava già Aristotele nella “Retorica”: “[chi odia] vuole che l’avversario non esista”. L’odio è annientatore. Per questo l’odio va a sua volta odiato senza se e senza ma.

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