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Come finirà la concorrenza tra Usa e Cina a colpi di dirigismo economico

La crescita della Cina, accompagnata dalla sua assertività manifesta, non è più la crescita di un magnifico mercato di sbocco, ma quella di un concorrente pericoloso che non nasconde le sue ambizioni. L'analisi di Alessandro Fugnoli, capo strategist dei fondi Kairos

Il capitalismo si è sempre vissuto come espressione della libertà nella sfera dell’economico. Come tale si è sempre contrapposto, esplicitamente o implicitamente, allo strapotere dello stato. Questa contrapposizione è stata di principio (proprietà privata e libera iniziativa come diritti naturali) ma si è sempre accompagnata con l’idea che il privato massimizza l’efficienza mentre il pubblico distrugge valore. Anche i critici e gli avversari hanno identificato il capitalismo con la libertà, dando però alla libertà una connotazione negativa. Si è parlato allora di capitalismo selvaggio, di libertà di sfruttamento, di proprietà come furto e di stato non più soggetto politico ma comitato d’affari della borghesia.

In realtà, storicamente, il capitalismo non è mai stato particolarmente libero e ha sempre dovuto confrontarsi con lo stato e con le parti sociali. Ha seguito lo stato nelle politiche di riarmo, nelle guerre e nelle conquiste coloniali. Ha cercato commesse pubbliche in qualsiasi settore e per averle ha sempre finito con l’allinearsi politicamente con il sovrano. Quando non lo ha fatto è stato spesso ridimensionato o schiacciato.

Inoltre il capitalismo è nato con la tara di una tensione interna verso il monopolio o l’oligopolio. Fin dalla fase iniziale, quella mercantile, le compagnie nascevano e operavano con licenza reale e mettevano a disposizione del sovrano un capitale che questo non aveva in cambio della concessione di un monopolio. Anche nei momenti in cui ha potuto agire in condizioni vicine allo stato di natura l’oligopolio ha finito con l’affermarsi o con la forza o come risultato della sovrapproduzione di offerta e del conseguente fallimento di gran parte degli operatori, come nel caso delle ferrovie inglesi di metà Ottocento.

Detto questo, ci sono stati comunque momenti in cui il dirigismo del sovrano è stato esercitato con la mano leggera e altri in cui è stato pervasivo. Più forte nelle fasi di preparazione e di gestione di una guerra, meno visibile nelle fasi di ricostruzione postbellica. Più debole nelle fasi di boom, più forte dopo una crisi.

La fase attuale vede una decisa ripresa del dirigismo a tutti i livelli. C’è la sensazione che l’Occidente sia impegnato in una battaglia esistenziale per la sua stessa sopravvivenza come centro del mondo. C’è la volontà, forse la necessità, di creare un clima di mobilitazione. Cresce ogni giorno il numero di paesi oggetto di sanzioni, mentre Cina e Russia, che fino a dieci anni fa erano quasi-amici, sono oggi avversari se non nemici. La crescita della Cina, accompagnata dalla sua assertività manifesta, non è più la crescita di un magnifico mercato di sbocco, ma quella di un concorrente pericoloso che non nasconde le sue ambizioni.

C’è poi il malessere interno, cresciuto a ogni crisi e alimentato dalla stagnazione secolare del decennio scorso. E poi, naturalmente, c’è la pandemia.

La volontà di serrare le file è evidente anche nell’altro campo, in particolare in Cina. Nello statuto delle imprese cinesi è oggi inclusa l’accettazione della guida del partito. Rappresentanti del partito siedono nei consigli d’amministrazione. I giganti della tecnologia, che si sognavano proiettati su scala globale e quindi più liberi da vincoli politici, sono stati ridimensionati nelle loro ambizioni e costretti a riconoscere il primato assoluto del partito.

Nel campo occidentale il dirigismo economico è visibile nella fine del divorzio tra banche centrali e Tesoro, nella trasformazione delle banche in filiali della banca centrale che erogano prestiti con garanzia pubblica, nella repressione finanziaria, nel controllo di curva. Sul piano fiscale lo vediamo nei debiti pubblici da tempo di guerra, nella voglia di alzare le tasse nonostante la monetizzazione del debito, nel livello di dettaglio minuzioso dei progetti di spesa, nel ritorno in auge del big government. Sul piano della politica industriale lo vediamo nella reregulation, nel protezionismo, nel climate change, nel passaggio dalla difesa della concorrenza alla difesa dei campioni nazionali, nella tolleranza dei nuovi monopoli tecnologici a condizione che siano politicamente allineati, nell’allargarsi del perimetro della sicurezza nazionale dall’industria militare classica all’insieme della tecnologia, con in testa i semiconduttori.

Chi investe non può che adeguarsi e cercare di mettersi nella scia di queste profonde trasformazioni. Se le banche centrali ci spingono verso il rischio dobbiamo stare nel rischio. Se i campioni nazionali sono oggetto di particolare attenzione dobbiamo privilegiare i leader di settore. Se la Cina diventa il grande avversario strategico dobbiamo conciliare le opportunità d’investimento in un grande paese in crescita con i rischi di sanzioni. Se climate change e sostenibilità diventano elementi identitari dell’ideologia occidentale dobbiamo sovrappesarli. Se i semiconduttori sono l’acciaio con cui si combatterà la prossima guerra, augurabilmente fredda, si deve accettare che incorporino multipli azionari più elevati della media.

All’adattamento va però affiancata una dose di cautela e una di buon senso. I temi del nuovo dirigismo non vanno inseguiti oltre un certo prezzo. È vero, quando un tema ha dalla sua lo spirito del tempo la bolla è inevitabile ed è un peccato lasciare sul tavolo soldi facili e veloci. Le bolle scoppiano però all’improvviso e non lasciano molto tempo per vendere decentemente. Simmetricamente, liquidare temi caduti in disgrazia come i petroliferi può non avere più senso sotto un certo prezzo, considerando che l’era dei missili e dei carri armati elettrici ha ancora bisogno di tempo e che i governi non vorranno condannare a morte prematura un settore ancora strategico. Attenzione però, l’esperienza del carbone mostra che l’estinzione di un settore produttivo avviene per gradi, ma la sua morte in borsa può essere veloce.

Gli ottimisti che guardano alle magnifiche sorti e progressive fanno notare che disponiamo di un potente antidoto ai monopoli e al dirigismo, ovvero la disruption originata dall’evoluzione tumultuosa della tecnologia. È vero, ma la disruption è di regola costosissima in borsa ed è redditizia, visti i prezzi a cui la si paga, solo se agisce, come scrisse Peter Thiel nel suo Zero To One, in una nicchia nuova in cui può diventare a sua volta un monopolio. Quanto al rapporto tra disruption e dirigismo, la vicenda del fintech cinese, riportato a una dimensione ancillare da un governo preoccupato dal suo togliere spazio alle banche e al controllo del partito sul credito, mostra che il primato della politica rimane indiscusso.

Venendo al breve, ma restando in tema, le banche centrali hanno recuperato il controllo, se mai l’hanno perso, della parte lunga della curva. La Bce, per farsi intendere, arriva a sfidare il mercato (ci testino quanto vogliono, dice la Lagarde). Libero dalla necessità di controllare il prezzo del Treasury ogni minuto, l’azionario può festeggiare la parte piacevole del nuovo capitolo del dirigismo fiscale di Biden, i due trilioni del pacchetto sulle infrastrutture. Della parte meno entusiasmante, i due trilioni di tasse sulle imprese che lo finanzieranno, ci si occuperà più avanti. Non prima di aprile, in ogni caso, perché per quella data arriveranno altri due trilioni. Restare investiti.

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