Skip to content

unione europea

Tutti gli effetti della collera nelle urne

L'analisi del saggista Antonio Pilati

A quindici mesi dalle drammatiche elezioni del 2018, che hanno liquidato la Seconda Repubblica e il bipolarismo Berlusconi/Pd, l’Italia vive un altro voto shock. È un segno di inquietudine e di collera, la conferma di una persistente voglia di cambiare (non per finta).

1. Vince in modo netto la destra. La Lega trionfa, ma soprattutto i voti di Salvini e Meloni sommati (quasi il 41%) superano nettamente quelli ottenuti l’anno scorso da tutto il centro-destra, Berlusconi incluso (35%). È un risultato in linea con una tendenza mondiale: Brasile, Israele, Australia, India (e probabilmente anche Giappone tra poco).

2. Questa tendenza si è rivelata più forte della campagna sulla corruzione e sul malcostume della politica cavalcata nell’ultimo mese dai grillini e alimentata da un profluvio di inchieste giudiziarie. Per gli italiani il primo problema è la debolezza dell’economia, il reddito calante, non la corruzione.

3. Il fatto politico più clamoroso è il crollo del M5S che forse è entrato nel suo “periodo Renzi”: il voto di ieri ricorda il referendum del dicembre 2016 (come il 33% delle politiche 2018 è simile al 40% delle europee 2014): un’estasi che dura un solo anno. L’esito della sconclusionata campagna fatta da Di Maio dice tre cose: non paga cominciare da ribelle che si agita contro l’establishment (dalla messa sotto accusa di Mattarella al sostegno per i gilet gialli) e finire come un Tajani qualsiasi che si prostra al pensiero ufficiale sull’immigrazione e i vincoli europei; il reddito di cittadinanza, di fronte alla realtà, si è trasformato, da speranza in delusione: esaurita la protesta e senza il fascino dei sussidi, il M5S non ha più una proposta attraente; la furbata tattica di buttarsi a sinistra rubando i temi del Pd per togliere spazio agli avversari interni ha prodotto solo una gran confusione. La tenuta del movimento forse è a rischio, trattenere gli scontenti non sarà facile: fosse un titolo di Borsa, Di Maio finirebbe venduto allo scoperto.

4. I partiti europeisti hanno un risultato infelice. Zingaretti rimane fermo alle percentuali ottenute nel 2018 da Pd + Leu (nel frattempo assorbito). Il consolidamento però è pagato caro: si prosciuga il bacino a sinistra, gli alleati di centro si confermano poca cosa, i temi sbandierati dagli intellò amici (emergenza antifascista, accoglienza infinita, continuiamo europeista) si rivelano dei flop totali, la potenziale alleanza coi grillini non solo traballa sul piano politico, ma non ha i numeri (insieme fanno il 40%). Quanto a Forza Italia, esiste ancora grazie al fascino istrionico di un over 80, ma non ha prospettiva politica: la linea “con la Merkel ma anche con Salvini” non sta in piedi.

5. In Europa, infine, il dato più rilevante è la crescente divaricazione tra i vari Paesi, che diventa spesso disgregazione interna. Dei sei maggiori Paesi, quattro hanno al primo posto un partito nazionalista: Italia (Lega), Uk (Brexit Party), Francia (Rassemblement National), Polonia (Diritto e Giustizia). In Francia il sistema politico si sta spappolando: solo tre partiti sopra il 10%, le architravi della Quinta Repubblica (gollisti e socialisti) ridotte al 6/8%, il partito del Presidente appena sopra il 20% dietro Marine Le Pen.

In Uk accade qualcosa di analogo: gli astuti manovratori di Bruxelles sono riusciti a mandare in tilt il più antico Parlamento europeo (così imparano a rifiutare lo splendore Ue), a trasformare un efficace sistema bipartitico in un’ammucchiata di 8/10 liste che ruota attorno a Nigel Farage, inventore in un mese del Brexit Party, e a consegnare i Tories a qualche hard Brexiter (tipo Boris Johnson). A Nord la Lega Anseatica, roccaforte dei partiti tradizionali, chiede più disciplina finanziaria per intensificare la politica mercantilista (in linea con la Germania). A Sud, dalla Francia alla Grecia, si vorrebbe fare l’opposto, ma Spagna e Portogallo, innaffiati dai capitali cinesi, preferiscono ancora l’opzione tedesca. A Est domina la paura della Russia e la voglia di decidere in casa propria (Kaczynski, Orban, Babis) bloccando gli impulsi di comando di Bruxelles un po’ troppo simili a quelli antichi di Mosca.

 

Articolo pubblicato su nicolaporro.it

Torna su