Oggi, a Washington, i capi di Stato e di governo di 32 paesi membri celebrano i 75 anni della NATO, la più longeva e riuscita alleanza politico-militare della storia. Poco meno di cinque anni fa, a Londra, il presidente francese Macron dichiarava la morte cerebrale della NATO. Secondo la geometria euclidea, tra questi due punti passa una sola retta: l’errore di Macron.
L’invasione dell’Ucraina, il paese che ambisce a diventare quanto prima il 33° membro dell’alleanza, ha confermato infatti i rischi creati dall’imperialismo russo e la necessità di fronteggiarlo rinforzando la dimensione militare, simboleggiata dall’obbiettivo di spesa del 2% che quasi tutti i membri hanno ormai raggiunto.
Dietro l’unanimismo di facciata – per tradizione, nella NATO non esiste il voto ma si cerca il “consensus” di tutti i membri – e le facili battute sulla NATO che “premia Putin come Venditore dell’anno”, il grande vertice deve però affrontare sfide che riguardano la natura stessa dell’Alleanza. Sono cambiati gli assunti che nel 1949 portarono a fondarla? I membri hanno una visione condivisa della situazione politica? La NATO ha per tutti lo stesso valore che aveva al momento in cui chiesero di farne parte? Le risposte verranno da una partita da giocare solo in parte a carte scoperte.
Si tratta di questioni politiche, com’è naturale in una alleanza che creò una propria struttura militare solo in seconda battuta, tre anni dopo la propria nascita. Tra queste, vi sono senza dubbio la valutazione delle sfide di sicurezza del XXI secolo, comprese quelle non convenzionali; l’individuazione delle aree d’interesse; la definizione del rapporto tra l’attuale NATO e la futuribile difesa europea.
Contrariamente a quanto vogliono far credere i semplificatori, la questione non è dunque di soldi o mezzi. Senza l’accordo sui grandi temi, sarebbe inutile anche la spesa del 3,5% promessa dal neo-primo ministro britannico Keir Starmer. Senza una visione comune dei rischi geopolitici, non farebbe differenza la dimostrata capacità di addestrarsi, rischierarsi e se ne necessario combattere fianco a fianco. Se esistessero riserve mentali sull’automatismo dell’articolo 5 (che in punta di diritto obbliga a reagire ma non necessariamente a combattere), la NATO si svuota di senso. Se gli Stati Uniti decidessero, magari sotto una nuova presidenza Trump, di spacchettare la grande alleanza in tanti bilaterali, tutto diventerebbe soggettivo.
Proprio perché la partita è politica, ciascun giocatore arriva al tavolo a carte coperte. Per Ungheria e Turchia, si tratta del punto fino al quale sono disposte a tirare la corda verso Putin. Per Francia e Germania, della forza del loro rapporto privilegiato. Per la Polonia, di capire fin dove il riarmo può restare difensivo senza tramutarsi in provocazione.
L’Italia arriva con carte mal assortite, difficili da tramutare in una scala (o, per i più autarchici, in una primiera). Da un lato ci sono l’indubbio rapporto transatlantico, certificato dalla simultanea presenza in USA delle Frecce Tricolori e della nave-scuola Vespucci, e dall’importante contributo a tutte le missioni NATO. Dall’altro ci sono le esplicite posizioni filorusse, nella maggioranza come nell’opposizione, tra i civili come tra i militari, tra i laici come nella Chiesa; le dichiarazioni vocali sulle priorità alternative (Africa e Mediterraneo anziché Ucraina); la tentazione di posizioni terziste (nella gloriosa tradizione del “né con lo Stato né con le BR”).
Alla credibilità dell’Italia nuocciono persino la reputazione di paese che rompe le alleanze (dalla Triplice all’8 settembre), il continuo rilancio di teorie complottiste sul ruolo americano nei misteri d’Italia e il bisogno di apparire ed essere considerata (da cui lo slogan: “me too, please”).
Proprio per questo, nella diplomazia USA l’Italia è stata spesso data per scontata (“Italy can always be counted upon”). Ciò spiega anche la difficoltà nel convincere tutti i partner della propria buona fede e bontà d’analisi ma anche nell’ottenere le contropartite alle quali l’Italia avrebbe diritto anche solo per il proprio contributo quantitativo.
È presto per dire come si svilupperà la partita. Di sicuro, le prospettive di stabilità politica interna sono a favore di Meloni. Di sicuro, dal 1° ottobre ci sarà un italiano alla presidenza del Comitato Militare della NATO.
Ma altrettanto di sicuro c’è chi propone una politica estera attenta più agli interessi interni immediati che alla prospettiva futura, chi crede piuttosto poco nell’ideale politico occidentale, chi pensa al Mediterraneo come alternativa all’Europa frugale (e pure un po’ protestante).
Sapremo per una volta essere coerenti o addosseremo il costo delle nostre ambiguità alla cattiveria degli USA e della NATO?