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Ecco gli obiettivi di Israele sull’Iran. Parla il prof. Kamel

Quale Iran potrebbe emergere dalla caduta del regime degli ayatollah? Intervista a Lorenzo Kamel, professore di Storia delle relazioni internazionali all'Università di Torino. Estratto dalla newsletter Appunti di Stefano Feltri.

Lorenzo Kamel insegna Storia delle Relazioni Internazionali all’Università di Torino e Storia del Mediterraneo alla Luiss di Roma. Il suo ultimo libro, per Einaudi, si intitola Israele-Palestina in 36 risposte.

Quale Iran potrebbe emergere dalla caduta del regime degli ayatollah? E con quali conseguenze nella regione?

È difficile prevedere le conseguenze, ma di certo la storia fornisce indicazioni precise. Nel settembre 2002, parlando al Congresso degli Stati Uniti, Benjamin Netanyahu dichiarò che se fosse stato rovesciato il regime di Saddam Hussein, ci sarebbero state conseguenze estremamente positive in tutta la regione. Queste furono le sue testuali parole.

A posteriori, sappiamo che l’invasione dell’Iraq dell’anno successivo, portata avanti con pretesti poi rivelatisi del tutto infondati, oltre ad aver favorito l’ascesa dell’Iran nella regione, ha creato il vuoto di potere che ha permesso l’affermazione dello Stato Islamico.

Quanto al contesto afgano, che nei trent’anni del lungo regno del sovrano Mohammed Zahir Shah aveva mostrato una marcata attenzione ai diritti delle donne e alle battaglie per il suffragio universale, il ruolo delle potenze esterne è stato a dir poco nefasto.

In quella che è stata la più lunga guerra della storia degli Stati Uniti, tra il 2001 e il 2021, sono stati uccisi oltre 150.000 afghani e più di 2.300 soldati statunitensi, molti dei quali giovanissimi, provenienti da famiglie con scarsi mezzi economici che si erano arruolati per poter accedere ai fondi necessari per frequentare le università americane.

Parliamo quindi di un prezzo enorme che, sommato al ritiro e al ritorno dei talebani sulla scena, ci ricorda che questi cambi di regime molto spesso avvantaggiano solo pochi attori, solo pochi stakeholder. Basti pensare che oltre l’80 per cento degli investimenti di Washington in Afghanistan è rientrato poi negli Stati Uniti sotto forma di contratti stipulati con compagnie private americane.

Non mi soffermo qui sul caso della Libia e su molti altri esempi, ma concludo sottolineando che la storia è molto chiara: rovesciare regimi ritenuti sgraditi, alla lunga, non paga, tanto più se si tratta di regimi legati a doppio filo alla nostra storia.

Trump, Netanyahu e i loro alleati non vogliono un Iran libero, democratico e privo di sanzioni. Parliamo di un Paese che ha le seconde riserve di petrolio al mondo, le terze di gas e 80 milioni di abitanti, quindi un mercato interno importante che potrebbe facilmente diventare, nell’arco di pochi anni, la potenza egemone della regione. Quello che vogliono è un Iran mansueto, cioè controllabile: non hanno alcun interesse in un Iran libero.

L’Arabia Saudita ha condannato l’attacco di Israele, pur essendo il principale rivale regionale dell’Iran. Il mondo arabo, soprattutto quello sunnita, come vede il possibile crollo di un altro regime non sunnita dopo quello degli Assad a Damasco?

L’Arabia Saudita, l’Egitto e gli altri regimi ai quali si accenna rappresentano poco più di loro stessi e degli interessi degli attori che hanno permesso loro di restare al potere. È importante non confondere mai i regimi locali, che sopravvivono anche — se non soprattutto — grazie alle armi di numerosi Paesi occidentali, con le persone, con i popoli locali. I regimi, incluso quello iraniano, mirano soltanto alla propria sopravvivenza.

A dispetto di quanto spesso si sostiene, il caos legato a un gigante regionale come l’Iran viene visto con apprensione, perché si sa che nessuno resta immune da uno scenario apocalittico che coinvolge un attore centrale nella regione.

Detto questo, prima della rivoluzione del 1979, gli interessi dell’Arabia Saudita e dell’Iran avevano mostrato più volte numerosi punti di contatto, a cominciare da una marcata convergenza in chiave antisovietica.

La situazione cambiò quando Riad iniziò a dare una connotazione confessionale ai rapporti tra i due Paesi, per rispondere a quella che percepivano come una minaccia ai propri interessi nazionali.

L’Ayatollah Khomeini si era infatti presentato come guida di tutti i musulmani, non solo degli sciiti, sfidando in questo modo la legittimità dei Saud e il loro ruolo di custodi dell’Islam e dei luoghi più sacri di questa religione.

A queste e ad altre sfide la leadership saudita reagì rafforzando le proprie credenziali di difensori dell’Islam e offrendo il proprio sostegno ai mujahideen, molti dei quali erano presenti in Afghanistan già prima che l’esercito sovietico invadesse il Paese nel dicembre 1979.

Ed è in questo contesto, grazie anche ai finanziamenti sauditi e statunitensi, che si formarono i primi movimenti jihadisti globali, inclusi alcuni che confluirono nel 1988 nel gruppo simbolo del jihadismo islamico: Al-Qaeda.

Uno degli argomenti dei sostenitori di Israele è che quello iraniano è un regime indifendibile, oscurantista, violento, brutale. Ma come ha consolidato il suo potere per resistere per quasi mezzo secolo?

Quello al potere in Iran è un regime brutale, e molti iraniani sono fortemente critici nei suoi confronti.

Una delle ultime volte che sono stato a Teheran, mi sono imbattuto in un gruppo di studenti dell’Università Mir Kabir che proponevano uno slogan che recitava così: “Vogliamo un Iran che non si precipiti tra le braccia dell’imperialismo a causa della sua paura del dispotismo, e uno che, in nome della resistenza e della lotta all’imperialismo, non vada a legittimare il dispotismo”.

Queste parole ci ricordano che molti iraniani rifuggono da visioni dicotomiche, da questa forma di aut-aut: sanno che potenze esterne e regime, per diversi aspetti, sono due facce della stessa medaglia. Tanto più che fu a seguito dell’operazione attraverso cui la CIA e i servizi segreti britannici rovesciarono il governo democraticamente eletto di Mohammad Mossadeq nel 1953, che si crearono molte delle condizioni strutturali per la rivoluzione che sarebbe avvenuta 26 anni dopo, nel 1979.

Diversi studi hanno mostrato che quella rivoluzione del 1979 è stata la più partecipata, in termini numerici, tra tutte le rivoluzioni della storia moderna e contemporanea — più di quella francese, più di quella russa — ed era una rivoluzione iraniana che divenne solo in seguito una rivoluzione islamica: il carattere religioso emerse solo dopo.

Era una rivoluzione iraniana perché vi parteciparono quasi tutti gli strati della popolazione, e lo fecero perché Mohammad Reza Pahlavi aveva instaurato un regime brutale, determinato a cancellare qualsiasi forma di dissenso.

Sappiamo, anche dalle parole dette a Oriana Fallaci, che Mohammad Reza Pahlavi considerava le donne come esseri inferiori, aveva un approccio estremamente problematico nei loro confronti.

Va infine ricordato che le stesse origini della dinastia Pahlavi sono riconducibili a un colpo di Stato avvenuto nel 1921, dal quale, anche grazie al ruolo svolto dall’autorità britannica allora presente nel Paese, emerse proprio il regime guidato da Reza Khan, il fondatore della dinastia: Reza Khan era un ufficiale dell’esercito, analfabeta e violento, che fu imposto in larga parte grazie al sostegno britannico.

Dunque, tutto questo ci ricorda ancora una volta l’importanza di mantenere un approccio umile quando ci rapportiamo a queste tematiche.

(Estratto da Appunti)

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