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L’intellettuale trapezista del circo equestre nazionale

La lettera di Michele Magno

Caro direttore,

da noi ci sono intellettuali talmente di sinistra per i quali la sinistra che c’è non è mai la “loro” sinistra. Hanno speso una vita a demolire il craxismo, il berlusconismo, il prodismo, il renzismo, il  draghismo e ora il melonismo. Unica eccezione, lo avrà notato, il contismo. Eppure l’ex avvocato del popolo ha guidato ben due governi dell’Italia repubblicana, e con risultati -se non disastrosi- certamente assai discutibili. Chissà, nonostante tutto forse quegli intellettuali continuano a considerarlo come un “punto di riferimento fortissimo delle forze progressiste” (con scorno di Elly Schlein). Tanto più dopo la manifestazione romana contro la guerra, anzi -come ha detto qualcuno- per espellere la guerra dalla storia. “Vaste programme”, avrebbe commentato il generale De Gaulle. Ma tant’è. I nostri maître à penser all’amatriciana sembrano ormai refrattari a ogni senso del pudore.

Sempre dalla parte degli oppressi (e del proprio videonarcisismo), essi sono “indignados” in servizio permanente effettivo contro l’eterna vocazione autoritaria, compromissoria, subalterna, trasformistica, premoderna, delle italiche classi dirigenti. La domenica predicano nuovi modelli di sviluppo, naturalmente alternativi a un capitalismo cieco e disumano. Nei giorni feriali ci spiegano che tra democrazia e mercato esiste una contraddizione insanabile. Negli anni bisestili è il turno delle grandi utopie: dalla liberazione dal lavoro alla kantiana pace perpetua (sottacendo o ignorando che per il grande filosofo tedesco la libertà viene prima della pace).

Severi custodi della Costituzione più bella del mondo e inflessibili guardiani di ogni immobilismo istituzionale, si sono poi convertiti all’etica della pace. Hanno quindi cominciato a corteggiare prima   quelli che volevano aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno, e adesso, pur di salvare la propria verginità, si scagliano contro i guerrafondai europei (mai contro Putin, beninteso, che continua imperterrito a massacrare gli ucraini).

La cosa è di una comicità grottesca. Ma la storia è piena di eterogenesi dei fini. Poco prima della sua morte, Eric Hobsbawm osservava con una punta di nostalgia che l’epoca in cui gli intellettuali erano il principale volto pubblico dell’opposizione al potere apparteneva ormai al passato. Lo storico britannico del “secolo breve” segnalava così il declino di una delle figure centrali del Novecento, fosse al servizio delle élite dominanti, organico a un partito, un cane sciolto.

Ma l’intellettuale è sempre stato un animale strano. Qual è infatti il suo mestiere? Secondo Luciano Bianciardi, insofferente a ogni establishment culturale, era indefinibile. Per l’autore della “Vita agra” il vero intellettuale, in fondo, è -o dovrebbe essere- schiavo di tutti e servo di nessuno. Oggi  spesso è solo un trapezista del circo equestre nazionale. Sic transit gloria mundi.

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