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Insulti

Insulti o trabocchetti in campagna elettorale? Ma 60 anni prima di Cristo era anche peggio

L’intervento di Corrado Sforza Fogliani, presidente Centro studi Confedilizia

La campagna elettorale in corso sembra peggio di ogni altra precedente. Il livello è quello che è, e sono in molti a pensare – davanti a offese reciproche continuate e a comportamenti senza precedenti – che al peggio non c’è fine. Ma non è così, consoliamoci pure: 60 anni circa prima di Cristo, a Roma, era anche peggio.

Nel ’62, dunque, Marco Tullio Cicerone (Cicerone il grande, quello che tutti i giovani studenti – una volta – sapevano chi fosse) si candidò al consolato, ad essere cioè uno dei due supremi magistrati della Roma antica, repubblicana (intendendo evidentemente il termine magistrato in senso politico/istituzionale; non, in senso tecnico, come oggi). E suo fratello minore, Quinto Tullio (Cicerone), gli scrisse allora una lunga lettera per dargli consigli su come condurre la campagna elettorale (anche se lui, che risulti, non ne aveva mai fatte).

Molti consigli sono scontati, oggi come duemila anni fa. Non andare mai in giro da solo nel Foro, vai sempre insieme a qualcuno, meglio se con più persone. Porta sempre con te un amico che conosca molta gente, che ti dica – il famoso nomenclator – il nome di chi incroci o ti avvicina (così che tu possa abbracciarlo e far finta di conoscerlo); se qualcuno ti saluta e ti promette il voto fai finta di credergli anche se sai che non voterà per te; le promesse falle, ma sempre del tutto generiche (così che – non realizzate – non ti possano poi essere rimproverate); se ti chiedono una cosa impossibile, non dire comunque mai di no (e se proprio non puoi farlo, fallo in modo gentile). E così via, nihil sub sole novum.

Niente di nuovo fino a un certo punto, però. Nella Roma antica si andava ben al di là degli insulti odierni, veniva considerato normale compiere (e consigliare anche pubblicamente) dei reati veri e propri, pur di vincere.

Intanto, infatti, Quinto Tullio mette subito per iscritto, a suo fratello, di non preoccuparsi assolutamente che si arrabbi “una persona alla quale avrà mentito” per ragioni elettorali (peggio per lui, ma solo per lui). Poi, che cerchi – Marco Tullio – di denigrare gli avversari, così che sorgano più sospetti possibili nei loro confronti, sospetti “di lussuria – in specie – o di sperperi” (allora, quest’ultima accusa era ancora pericolosa; oggi, invece, conta più niente, nessuno se ne preoccupa più e tantomeno la Finanza, che invece una volta ci guardava). Per gli avversari, ancora, che Cicerone (il grande) ricorra pure all’arma del discredito, anche inventando “la possibilità di un loro coinvolgimento in un processo”. Ugualmente, tenga sempre presente che se lusingare i terzi è cosa tutt’altro che commendevole nella vita privata, è invece un qualcosa di indispensabile in campagna elettorale. Da ultimo, il candidato – con la sua veste candida, da cui il nome – tenga presente che (allora) “Roma est civitas – non traduciamo neanche, si capisce bene ugualmente – in qua multae insidiae, multa fallacia, multa in omni genere vitia versantur, multorum adrogantia, multorum contumacia, multorum malevolentia, multorum superbia, multorum odium ac molestia preferenda est”, una città – insomma – sentina di tutti i vizi possibili e immaginabili. E si sappia, anche il pur grande avvocato che era Cicerone, regolare di conseguenza.

Insomma, quanto alle consultazioni elettorali, una grande consolazione: nihil sub sole novum davvero, no?

 

 

 

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