Il 18 gennaio di cento anni fa Gabriele d’Annunzio lasciava Fiume dopo il “Natale di sangue”che segnò la fine della Reggenza del Carnaro. La vicenda fiumana fu un episodio rilevante nella storia del “secolo breve” che accelerò la crisi politica italiana del primo dopoguerra ed assunse un carattere “rivoluzionario”, propugnatore di un nuovo ordine internazionale politico e sociale. Per molti fu l’occasione della contestazione globale al sistema che, partendo da motivazioni patriottico-nazionaliste, metteva in discussione l’ordine mondiale costituito, a partire dalla Società delle Nazioni, eredità della pace di Versailles, definita il “trust mondiale degli Stati ricchi”.
A Fiume convivevano eterogenee concezioni e aspirazioni di rinnovamento nel tentativo di dare una risposta alle inquietudini e al malessere di una generazione che aveva fatto la guerra e sentiva di essere diversa da quella precedente per il modo di concepire l’esistenza, i rapporti umani e sociali, la libertà individuale e l’organizzazione del potere. Le più originali espressioni del “fiumanesimo” anticiparono stati d’animo, idee, iniziative che avrebbero caratterizzato l’esperienza dei movimenti giovanili degli anni sessanta all’insegna di parole d’ordine come “siate realisti e chiedete l’impossibile” o “l’immaginazione al potere”. L’emancipazione femminile, la libertà sessuale, la rivendicazione del matrimonio dei sacerdoti, l’accettazione dell’omosessualità, la diffusione delle droghe divennero componenti dinamiche della “città di vita”.
Si coltivò l’idea di fare di Fiume il crogiolo di una rivoluzione globale che coinvolgesse tutti i popoli vittime degli Stati imperialisti e le minoranze, come i neri e i cinesi d’America. Con la “Carta del Carnaro”, redatta da Alceste De Ambris e “corretta” dal Vate con linguaggio letterario, emerse con chiarezza il progetto “visionario” di costruire su basi istituzionali un nuovo assetto economico, del tutto alternativo al socialismo di stato, capace di rendere davvero esigibili i principi di liberté-egalité–fraternité della Rivoluzione Francese. Si posero le basi teoriche per dar vita ad un sistema interclassista fondato sui principali diritti di libertà individuale e sulla funzione sociale della proprietà. La “Repubblica dei Sindacati”, intesi questi ultimi come moderne corporazioni che rappresentano gli interessi collettivi delle diverse categorie di lavoratori, costituisce un insieme organico economico-culturale, su cui doveva fondarsi la nuova società.
Il fatto che a Fiume convivessero orientamenti tra loro molto diversi spiega perché dopo il “Natale di sangue” le sorti dei legionari si divisero. Il tentativo di tenerli uniti per un improbabile ritorno del Vate sulla scena politica in funzione anti-Mussolini, finì presto soprattutto perchè d’Annunzio non ne era interessato e scelse la via del compromesso col nuovo regime. Alla marcia su Roma del 28 ottobre 1922 parteciparono molti ex legionari, tra cui il generale Ceccherini o l’avvocato Giovanni Giuriati e il giovane ardito Ettore Muti che scalarono entrambi le massime gerarchie del regime. Altri legionari scelsero di combattere il fascismo. Così Alceste De Ambris che morì in condizioni di estrema povertà in Francia nonostante le insistenze di Mussolini perché accettasse di dirigere le Corporazioni fasciste dei lavoratori. Come lui il capitano Mario Magri, che partecipò alla costituzione degli “Arditi del popolo”, subì diciassette anni di confino e morì fucilato dai nazisti alle Fosse Ardeatine. Riccardo Gigante, sindaco di Fiume nel 1919 e poi podestà fascista della città, fu una delle numerose di vittime delle foibe nel maggio 1945.
Senza Gabriele d’Annunzio, pur con il suo ingombrante ruolo, sarebbe stato impossibile realizzare l’impresa fiumana ma nella complessa figura del Vate si riflettono i limiti e le contraddizioni della “città di vita”. Per alcuni d’Annunzio fu l’interprete delle aspirazioni contraddittorie e visionarie della generazione di europei usciti dalla Grande Guerra e Fiume ne fu l’essenza rivoluzionaria che egli identificò nella celebrazione di se stesso.
Per altri d’Annunzio fu il profeta verso cui correvano avventurieri, militari e ufficiali smobilitati senza prospettive, dilettanti della rivoluzione e della controrivoluzione o il protagonista di una meravigliosa avventura teatrale dove l’eroe, il letterato e il commediante entrano in scena a turno, e spesso tutti insieme. O, ancora, l’autore di una risposta originale alla crisi di valori del primo dopoguerra, attraverso l’espressione di una confusa ma sincera volontà costruire una società in cui l’uomo lavoratore avrebbe realizzato una totale libertà individuale in armonia con la collettività.
I fatti di Fiume non si possono ricondurre ad un semplice fenomeno nazional-conservatore incubatore del fascismo, anche se è vero che intaccarono profondamente la disciplina dell’esercito, accelerando la disgregazione delle istituzioni italiane. In realtà Mussolini, per nulla intenzionato ad accettare la leadership di d’Annunzio in improbabili progetti rivoluzionari sul territorio italiano, di Fiume non fu mai un vero protagonista. Anzi, pur apparendone dalle colonne del Popolo d’Italia uno strenuo difensore, il futuro “duce” ne fece oggetto di “scambio politico” con Giolitti, abbandonando i Legionari al loro destino. Questo non gli impedì di impadronirsi della liturgia politica di massa del “fiumanesimo” che recuperava la romanità come mito e la celebrazione dell’eroismo nella guerra patriottica.
Saluti, motti e canzoni dei legionari come“Eia eia,alalà!”, “A noi !”, “Me ne frego !”, “Ardisco e non ordisco”, “Chi non è con me è contro di me “, “Giovinezza” ( il canto degli Arditi sul Piave), oppure la camicia nera e il fez degli arditi, il culto dei caduti, gli anniversari, i giuramenti, le marce, divennero nell’immaginario collettivo i simboli autentici della propaganda fascista. Gli stessi discorsi dal Palazzo del Governo in cui il Vate, utilizzando per primo questa tecnica di suggestione, dialogava con la folla entusiasta attraverso frasi retoriche e domande, saranno imitati da Benito Mussolini che farà propria la politica-spettacolo del Vate. Tutto questo ha concorso a commettere l’errore di giudicare il “fiumanesimo” un semplice episodio del fascismo accreditando così la strumentalizzazione che ne fece il regime.
Rievocando Fiume va sottolineata, accanto a quella del “Comandante”, la figura di Alceste De Ambris, rivoluzionario libertario, fondatore nel 1912 con Filippo Corridoni dell’Unione Sindacale Italiana, deputato al parlamento nel 1913, interventista e volontario combattente che, pur senza aderire ai fasci di combattimento, contribuì al programma sansepolcrista del 1919. E’con lui che il governo fiumano segna una svolta, sia sul terreno politico (la Carta del Carnaro e la Repubblica di Fiume, ridimensionata prudentemente da d’Annunzio a “Reggenza”), che nel tentativo di estendere il moto insurrezionale in territorio italiano per proclamare la Repubblica. Ma l’utopista concreto De Ambris mostra anche flessibilità e realismo, quello che mancherà a d’Annunzio per evitare il “Natale di sangue”, quando consiglia al Vate di accettare un compromesso. De Ambris personificò le contraddizioni del novecento italiano e l’insanabile divisione della cultura rivoluzionaria dopo la Grande Guerra.
Poche vicende, come quella di Fiume segnarono così profondamente un’intera generazione ed esplorarono dimensioni politiche e culturali tutt’ora attuali. Riflettere oggi, riflettendo su queste vicende, sollecita un impegno, ancor più necessario nell’attuale contesto internazionale, a costruire l’Europa come strumento di coesione, di crescita e di difesa delle libertà, condizioni essenziali per garantire un futuro di prosperità e di pace alle nuove generazioni.