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Watergate

Il Watergate dei poveri

Watergate greco. Che cosa cela la vicenda di intercettazioni telefoniche ai danni di Nikos Androulakis (europarlamentare e da circa un anno presidente di Pasok-Kinal)

 

Tutto nasce da una vicenda di intercettazioni telefoniche ai danni di Nikos Androulakis (europarlamentare e da circa un anno presidente di Pasok-Kinal). Subito battezzata con modesto dispendio di fantasia il “Watergate greco”, questa vicenda rischia di affondare non solo il governo di Kyriakos Mitsotakis ma anche di far danno allo stesso Androulakis, benché nella sostanza appaia un incidente di percorso di portata obiettivamente non enorme. Come tutte le storie in cui sono coinvolti i Servizi, però, è sgradevole, sdrucciolevole e, soprattutto, strumentalizzabile.

Da quel che si può intuire funzionari, forse troppo zelanti, hanno utilizzato segnalazioni di Servizi stranieri (chi dice armeni, chi ucraini, entrambi i paesi hanno ovviamente smentito le voci) per chiedere alla Procura ellenica la prescritta autorizzazione e quindi mettere sotto controllo l’utenza telefonica di Androulakis ancor prima che l’europarlamentare fosse eletto presidente del Pasok-Kinal. La vicenda veniva alla luce ad opera dello stesso Androulakis, avvertito dai competenti servizi del Parlamento europeo che il suo telefono risultava controllato con il software Predator, uno dei numerosi giocattoli informatici per spie, simile all’israeliano Pegasus (col quale sarebbe stato controllato a distanza il giornalista saudita Jamal Khasshoggi, brutalmente assassinato e smembrato da una squadra arrivata per via aerea dall’Arabia Saudita – per ordine, secondo l’opinione di gran lunga prevalente, condivisa anche dai Servizi americani, del principe ereditario saudita Mohammad bin Salman – nel consolato saudita di Costantinopoli il 2 ottobre 2018).

Mitsotakis si affrettava a rispondere con un’intervista televisiva dichiarando di aver avuto conoscenza della cosa solo nei giorni immediatamente precedenti, che il controllo del telefono di Androulakis risultava formalmente e legalmente “adeguato” ma era politicamente inaccettabile e che, se fosse stata richiesta la sua autorizzazione, l’avrebbe decisamente negata. Accennava a “strutturali debolezze endemiche” dei Servizi e preannunciava proposte di riforma per il rafforzamento dei controlli preventivi.

I principali dati di fatto certi sono tre. Tra la fine di luglio e i primi di agosto Panagiotis Pantaleon, capo dei Servizi (Ethnikì ypiresìa pliroforiòn – Servizio nazionale di informazioni, in sigla Eyp) ha rassegnato le proprie dimissioni su esplicita richiesta del premier e altrettanto, sempre su sollecitazione di Mitsotakis, ha fatto Grigoris Dimitriadis, segretario generale della presidenza del Consiglio – tra l’altro nipote del premier. Mitsotakis, oltre ad affermare di non essere stato preventivamente messo al corrente dell’intercettazione – né avrebbe dovuto secondo la procedura vigente – ma di giudicarla un errore grave, ha immediatamente accolto la richiesta di anticipata riapertura del Parlamento (“Voulì”) dopo la pausa feriale, per un dibattito sulla vicenda, e si è mostrato favorevole alla istituzione di una commissione d’inchiesta parlamentare che consentisse anche di mettere in luce le carenze strutturali del Servizio e suggerire interventi correttivi.

In attesa del confronto in Aula, le opposizioni cominciavano a attaccare a testa bassa. Syriza e Pasok-Kinal mobilitavano la loro rete mediatica internazionale – di gran lunga più efficiente, va detto, di quella di Nea Dimokratia – che infatti da The Guardian a il Giornale, da la Repubblica a il Fatto Quotidiano, riprendevano sostanzialmente tutti negli stessi termini la notizia, talora enfatizzandone la portata con l’erronea attribuzione a Androulakis della qualifica di “capo dell’opposizione”, laddove l’eurodeputato é presidente del secondo partito di opposizione, che dispone di 22 seggi nella Voulì contro gli 85 di Syriza. Autorevoli costituzionalisti come Evangelos Venizelos e Nikos Alivizatos, di orientamento progressista, e Procopi Pavlopoulos, vicinissimo alla frazione populista di Nea Dimokratia che si riconosce in Kostas Karamanlis ed eletto – è un inciso necessario come si vedrà più avanti – presidente della Repubblica nel 2015 con i decisivi voti del partito di Alexis Tsipra, criticavano duramente il premier teorizzando che intercettare il telefono di un leader politico o di un giornalista è in ogni caso anticostituzionale. Nel dibattito parlamentare le opposizioni (con l’estrema, ma consueta, violenza verbale di Tsipras nei confronti degli avversari politici, che lo ha costretto anche a rimangiarsi, sia pure a denti stretti, su intervento per fatto personale dell’interessato, un’esplicita reiterata accusa di mendacio nei confronti del ministro Gerapetritis, dopo l’intervento, fremente di sdegno, dell’interessato “per fatto personale”) hanno stigmatizzato l’episodio come una grave e imminente minaccia per la democrazia e chiesto le immediate dimissioni del governo Mitsotakis con conseguenti elezioni (automatiche, nel sistema greco che non consente iniziative del presidente della Repubblica per “salvare” le legislature con nuove coalizioni, come accade abitualmente in Italia). Tsipras invitava ripetutamente i deputati di Nea Dimokratia a abbandonare il loro leader per non rendersi complici della gravissima lesione della democrazia consumata da quest’ultimo.

Alle richieste di dimissioni Mitsotakis ha replicato  che non era intenzionato a abbandonare la barca nella situazione grave – destinata a aggravarsi ulteriormente nei prossimi mesi – frutto del combinato disposto di crisi energetica, inflazione e minacce geopolitiche.

In effetti nel solo mese di agosto sono stati respinti al confine orientale con la Turchia sul fiume Evro oltre 25 mila tentativi di ingresso illegittimo nel territorio ellenico e il numero di violazioni dello spazio aereo da parte dei velivoli militari turchi, ivi compresi i micidiali droni armati fabbricati in Turchia, è di svariate decine quotidianamente.

L’aggressività della retorica di Recep Tayyip Erdogan lo porta a sibilare, all’indirizzo della Grecia, frasi come “potremmo arrivare una sera senza preavviso” oppure “ricordatevi di Smirne!”; proprio nei giorni – questi – in cui ricorre il centenario della più grande tragedia politica e umana della Grecia moderna.

Raccontare che cosa sia stata la Catastrofe dell’Asia Minore, un territorio che rappresentava il “Cuore dell’Ellenismo” (con le parole della grande storica del mondo bizantino Hélène Glykatzi-Ahrweiler), richiederebbe troppo spazio, ma un minimo di spiegazione è indispensabile. Iniziata col devastante incendio, il 13 settembre del 1922, di Smirne, grande e ricca e colta metropoli multietnica del Levante, l’espulsione e il massacro, in una misura che non si è mai potuto accertare, del principale gruppo nazionale, quello greco-ortodosso, fu solo l’inizio di un’operazione di definitiva “pulizia etnica” che in pochi mesi avrebbe spostato violentemente un intero popolo (otto-novecentomila persone in pochi mesi, i restanti cinque-seicentomila nei successivi cinque-sei anni, per un totale pari a un incremento del 30 per cento della popolazione residente nel territorio ellenico) dai luoghi dove viveva da molti secoli verso una “madrepatria” fiaccata da dieci anni di guerre e irriducibili divisioni politiche, che contava 4,8 milioni di abitanti, quindi ben poco preparata a accoglierlo.

Questo avveniva dopo una campagna militare in Anatolia, sostenuta dall’Intesa anglo-francese ma combattuta solo dalla Grecia,  conclusasi con una disastrosa ritirata dell’esercito ellenico, non esente dai crimini di guerra che tutte le ritirate disastrose, con l’imperativo della terra bruciata, comportano, e che potevano in parte spiegare le generalizzate atrocità esibite dalla Turchia nella attuazione della loro pulizia etnica: solo in parte, perché si dovrebbe anche parlare delle “tecniche del terrore” che  l’impero Ottomano ha lasciato in eredità alla  repubblica Turca, e che hanno avuto la loro estrema applicazione nel genocidio degli Armeni e in quello dei Greci del Ponto, ma si sono anche tradotte nella “notte dei cristalli” del 6-7 settembre 1955, quando in un pogrom organizzato in tutti i dettagli (compresa la falsa notizia di un attentato alla casa natale di Kemal Ataturk a Salonicco) dal partito al potere, a mezzo di squadracce autotrasportate nel centro di Costantinopoli; in quella notte, per le percosse e negli incendi morirono tra le 13 e le 30 persone (tra cui anche una persona armena), mentre altre centinaia furono ferite. Furono distrutte o gravemente danneggiati, oltre a innumerevoli altri beni, 110 alberghi, 27 farmacie, 23 scuole, 21 fabbriche, 73 chiese e oltre un migliaio di abitazioni private di proprietà greca, senza dimenticare gesti simbolici come la profanazione e la vandalizzazione dei cimiteri greci di Costantinopoli. Le autorità, quando dopo nove ore ritennero che i “disordini” avessero raggiunto il loro obiettivo, per fermare le squadracce furono costrette a proclamare la legge marziale. Della comunità greca, allora forte di oltre 115 mila persone, più che dimezzata nei successivi cinque anni, oggi sono rimaste le briciole. Parlare di Catastrofe non è un’esagerazione.

Al termine dell’ultimo consiglio dei ministri Erdogan ha dichiarato, ricorrendo questa volta a un eloquio più “professionale”, che “la Grecia non è un nostro interlocutore perché non è al nostro livello né politicamente, né militarmente né economicamente”. Difficile immaginare un modo più definitivo di contestare la sovranità di un altro paese.

Quanto alla rete di alleanze che il governo Mitsotakis ha costruito in questi anni, potrà aiutare ma non basta a assicurare sonni tranquilli al governo di Atene. Proprio in questi giorni un editoriale del direttore della Kathimerini, il più autorevole quotidiano ellenico, riferiva che “da Berlino si telefona ad alti funzionari di Bruxelles per chieder loro di non alzare i toni con Ankara né di sostenere in modo esagerato le posizioni elleniche. A Washington, un forte gruppo di esponenti dell’amministrazione insiste con monotonia sul punto che ‘gli Usa non devono perdere la Turchia’. Ignorano lo scoperto flirt Erdogan-Putin, i ricatti agli Usa e alla Nato, e sostengono che ‘l’Occidente deve evitare qualsiasi cosa allontani la Turchia’ ”. L’editoriale si concludeva con l’ovvia ma ben poco rassicurante considerazione che, se l’America deciderà di reagire solo quando Erdogan avrà messo in atto una delle sue minacce, sarà troppo tardi.

Tutto questo per dire che la scelta di respingere la richiesta di dimissioni non può essere considerata strumentale ma si basa su motivazioni estremamente serie, anche se è evidente che oggi il premier (e con o senza di lui la Grecia) si trova in una situazione difficile e l’opposizione, soprattutto quella di Syriza, è ovviamente decisa a sfruttare con ogni mezzo questa occasione – che le è stata servita su un piatto d’argento –  di abbattere il governo o quanto meno di indebolire il più possibile la posizione personale di Mitsotakis; che è poi quello che interessa a Tsipras perché il governo in carica, con tutti gli inevitabili errori, ha dimostrato che è possibile governare la Grecia senza tenerla in uno stato di permanente e divisiva tensione propagandistica, ma con metodi fattivi, riuscendo a attrarre investimenti esteri e a correggere alcune delle più più gravi carenze del settore pubblico, insomma cercando di fare un po’ di ordine, che è poi quel che non ha saputo o voluto fare la coalizione Syriza-Anel durante la precedente legislatura.

Mitsotakis tuttavia è cosciente della propria oggettiva debolezza, tanto che nel dibattito parlamentare si è detto pronto a pagare l’intero prezzo politico che la sua decisione di evitare elezioni anticipate, in questo momento così periglioso per il Paese, potrebbe comportare per lui.

Il premier tuttavia non si è limitato a respingere la richiesta di dimissioni ma ha sfidato Tsipra a presentare, secondo le regole parlamentari, formale mozione di sfiducia, ma il presidente di Syriza si è ben guardato dal raccogliere la sfida borbottando che “non è il momento”. Questo scambio retorico non testimonia solo della modestissima importanza che annette alla coerenza una parte importante dell’elettorato ellenico, che dal leader, conformemente al canone populista, esige identità, individuazione del nemico e possibilmente forti emozioni; la risposta di Tsipras si spiega anche con una regola del parlamento ellenico, che impone un intervallo di almeno sei mesi tra una mozione di sfiducia respinta e la presentazione della successiva e tradisce il suo timore di non riuscire oggi a far passare dalla sua parte il numero di deputati di Nea Dimokratia occorrenti per far approvare un’eventuale mozione di sfiducia: il gruppo parlamentare di ND dispone infatti della maggioranza assoluta nel parlamento ellenico.

Quanto alle posizioni contrapposte sul merito della vicenda, quella del governo è già stata illustrata. Le opposizioni ribattono che non è credibile che Mitsotakis non sapesse, che Pantaleon era un suo uomo di fiducia nominato a capo dei Servizi pur non possedendo tutti i requisiti prescritti (sembra fosse privo della laurea); in ogni caso, insistono gli antagonisti del premier, quest’ultimo non ha risposto pubblicamente alla domanda chiave: con quale motivazione è stata chiesta l’autorizzazione a intercettare l’utenza telefonica di Androulakis?

Su questo punto Mitsotakis è ovviamente irremovibile: simili informazioni non si danno pubblicamente a meno che non si intenda azzerare la credibilità dei Servizi. Invocare totale trasparenza in materia di servizi d’informazione equivale a ritenere che di questi la sicurezza nazionale non abbia bisogno. Nell’attuale situazione – ripete ancora il premier – screditare un Servizio già oggi deficitario ma indispensabile per proteggere il Paese dalle minacce esterne e interne, per la Grecia sarebbe esiziale. A Androulakis era già stato offerto di ricevere riservatamente dai responsabili dei Servizi le informazioni che – in quanto diretto interessato – aveva il diritto di ottenere, ma aveva declinato l’offerta.

La tematica sarà affrontata dalla Commissione parlamentare d’inchiesta già istituita, ed è anche sin dall’inizio sul tavolo della Commissione Permanente sulla Trasparenza e le Istituzioni, una sorta di Copasir dove i partecipanti sono vincolati al segreto. Peccato, c’è da notare, che i rappresentanti dell’opposizione, mentre ancora la prima seduta era in corso, avevano divulgato all’esterno il contenuto di alcune risposte date dal nuovo responsabile dei Servizi e ne avevano perfino menato vanto, tanto per chiarire che nelle sedute successive si sarebbero comportati allo stesso modo.

Non ci si deve stupire. La cultura politica greca si fonda sull’annientamento dell’avversario, non finge neppure, come accade in Italia, di perseguire un qualche interesse comune alla generalità del popolo, fosse pure quello minimale del rispetto delle fondamentali regole del gioco. É la cultura politica della insanabile spaccatura dell’arena politica e dell’opinione pubblica in due campi contrapposti che, col nome di “dichasmòs”, è divenuto un dato permanente, anche se di tanto in tanto “sommerso”, della cultura politica, un dato che ha indotto lo storico Giorgos Dertilis a qualificarla con l’impronunciabile neologismo  “emfyliopolemikì” (“guerracivilistica”).

Ma nella sostanza, per chiunque sia interessato a valutare gli attuali equilibri politici in Grecia, il pur infuocato dibattito, di cui si è appena dato sommariamente conto, è di lana caprina. Come dello stesso materiale è fatto l’interessamento alla vicenda della presidente del Parlamento europeo, sollecitato da europarlamentari dell’opposizione al governo Mitsotakis e tradotto in una lettera al governo ellenico, cui il rappresentante permanente della Grecia a Bruxelles aveva risposto assicurando la massima collaborazione del suo governo, sottolineando però che “poiché la sicurezza nazionale va trattata con la massima sensibilità, ci sembrerebbe più prudente in futuro evitare di affrettarsi a avallare, prendendoli alla lettera, singoli resoconti provenienti da testate politiche che non sempre si distinguono per precisione e obiettività”.

Risposta che ha procurato al governo la prevedibile accusa di voler imbavagliare la stampa. Benché l’accusa sia fortemente esagerata, gli estensori della risposta ellenica a Roberta Metsola quel diretto riferimento alla stampa avrebbero fatto bene a risparmiarselo: un governo non può mai permettersi di accusare pubblicamente un organo di stampa di essere partigiano, soprattutto quando è vero.

Altrettanto si può dire – senza entrare nel merito delle motivazioni dell’interessato – della querela per diffamazione di Dimitriadis, che ha subito offerto a Teresa Ribero, rappresentante dell’Osce per la libertà di espressione, il destro per dichiarare che avrebbe seguito attentamente la procedura attivata dall’ex segretario generale della presidenza del Consiglio, per verificare che non mirasse a soffocare la libera voce della stampa. Di nuovo, è ovvio che anche questa presa di posizione non brilla per imparzialità, ma è altrettanto ovvio che è stato Dimitriadis a fornire l’assist agli avversari del governo. Lana caprina, in sé e per sé, anche la presa di posizione di Kosta Karamanlis (suo zio Costantino fu il fondatore di Nea Demokratia) che, senza nominare il premier, ha aggiunto il proprio “fuoco amico” a quello degli avversari invocando “totale trasparenza”. A dirla tutta, lana caprina è anche la richiesta delle dimissioni del premier da parte di Tsipras (che in realtà questa invocazione ripete praticamente dal giorno dopo la nomina del governo). La sua tattica, già attuata con successo durante la scalata alla maggioranza tra il 2012 al 2014 infatti – che nel sistema politico ellenico e forse non solo in quello ha sempre pagato più del buongoverno – è di sviluppare la propria rete, coltivare protettori internazionali e soprattutto evitare qualsiasi costo politico che comporta il fatto di prendere posizione su questioni concrete e dibattute non secondo definite logiche di schieramento, concentrando le energie e le risorse nell’attacco personale agli avversari e questo, solo questo, è la richiesta di dimissioni: è l’ordinario modo di far politica in Grecia, anche se Tsipras si distingue per due cose: una particolare disinvoltura nel costruire le alleanze e l’assoluta indifferenza per quelle regole di etichetta istituzionale che perfino in Grecia nei rari periodi di normalità si osservano.

Resta il dato di fatto che oggi Mitsotakis è esposto alla pressione di un fronte largo e a prima vista determinato a aumentare la pressione fino a ottenere la caduta del governo.

La domanda è quindi: riuscirà Mitsotakis a portare a termine – sia pure politicamente ammaccato – la legislatura che scade tra nove mesi? Senza naturalmente la piú remota ambizione di fare dei vaticini (e avendo presente che lo stesso Mitsotakis potrebbe sorprendere tutti decidendosi all’improvviso per le elezioni anticipate), qualche considerazione, partendo dalla configurazione attuale degli schieramenti e da talune particolarità della vicenda, si può fare.

Inizio da queste ultime. La copertura mediatica del “caso Androulakis” a livello internazionale è stata diseguale. Qualche articolo è uscito anche sulle portaerei della infosfera occidentale come il Ft e il Nyt, ma dopo un certo tempo dall’emersione dello scandalo. Chi ha dato il là è stato il quotidiano online Politico, con un’ampio réportage della corrispondente da Atene Nektaria Stamouli del 5 agosto scorso, a poche ore di distanza dalle dimissioni di Pantaleon e Dimitriadis. Le testate italiane hanno lasciato passare qualche giorno prima di dare spazio all’argomento, The New York Times e The Financial Times qualche settimana. Dopo il primo articolo di Politico quasi quotidianamente Brussel Playbook ha dedicato una sorta di rubrica fissa intitolata “Greek spying scandal latest”, sempre alimentata dalla Stamouli, una giornalista di lungo corso con ampie esperienze internazionali, che collabora da molti anni con Politico e si riconosce nell’area della politica greca che oggi fa riferimento a Syriza e a Pasok-Kinal (del tutto legittimamente: lo preciso perché conosco la permalosità dei miei compatrioti). Nulla di straordinario quindi nello spazio dedicato da Brussel Playbook al “Watergate greco”, anche se lo squilibrio rispetto agli altri argomenti della newsletter non può passare inosservato e denota la decisione di farne oggetto di una “campagna di stampa”. Questa lettera quotidiana di Politico dedicata agli affari comunitari è una sorta di organo ufficioso, non il solo di certo, degli apparati che si diramano dai vertici della Commissione di Bruxelles.

Del resto tutto lo scandalo è partito da una comunicazione a Androulakis dei servizi dell’Europarlamento, parlamento che – non me ne vogliano i sedicenti europeisti di obbedienza brussellese – rimane una parodia di quelli veri, per quanto anche questi ultimi abbiano conosciuto tempi migliori. Sempre in tema mediatico c’è poi da ricordare che poco più di un anno fa Politico è stato acquistato dal gruppo editoriale fondato da Axel Springer, re della editoria popolare in Germania.

Benché la presidente Ursula von Leyen (più esperta della avvocata Metsola) sia stata ben attenta a non farsi sfuggire nessun commento, si può tranquillamente affermare che di amici, dalle parti delle istituzioni comunitarie, Mitsotakis ne ha sicuramente meno dei suoi avversari.

A questo proposito, vanno considerati due motivi “strutturali”, uno di ordine interno e l’altro di ordine internazionale.

Se si tiene presente che l’attuale premier si ispira in maniera convinta all’esempio centrista di suo padre Costantino, cioè di un riformismo concreto  fondato sul pragmatismo dell’azione di governo e del discorso politico, anche alla luce delle notazioni fatte poco fa sul sistema politico greco non è difficile capire come la vittoria elettorale del 2019 che ha prodotto l’attuale governo abbia in sé qualcosa di miracoloso. Si spiega solo con le intemperanze populiste, con un retrogusto “sudamericano” e la programmatica inefficienza del governo che l’ha preceduto (efficiente nel ruolo di esattore e esecutore delle altre politiche richieste dalle potenze protettrici), di cui l’opinione pubblica internazionale conosce ben poco (a parte gli show di Yannis Varoufakis a Bruxelles e altrove e il referendum). Qualche esempio: il referendum percepito da tutti come l’alternativa tra dentro l’Europa o fuori dall’Europa, “vinto” da Tsipras con una maggioranza di quasi due terzi  per il fuori e tradotto nell’arco di meno di due settimane nel suo contrario, con un programma di lacrime e sangue scritto a Bruxelles e portato a Atene da Tsipras come un trofeo; proseguendo con l’inevitabile blocco dei prelievi in contanti (60 euro al giorno) abolito solo anni dopo, e i pesanti controlli sui pagamenti all’estero (che in un paese che importa l’ottanta per cento di ciò che consuma può creare qualche problemino); una gara, arrivata out of the blue, per l’assegnazione di quattro frequenze per le trasmissioni televisive di portata nazionale, con conseguente revoca di tutte le licenze in corso, procedura che si rivelò immediatamente un festival di violazioni della stessa legge approvata mesi prima dalla coalizione Syriza-Anel, per poi sprofondare nel ridicolo nell’arco di qualche settimana; lo spettacolo di degrado del servizio antincendi che lasciò morire 100 persone nella zona costiera di Mati e Nea Makri in Attica, investita da un violento incendio in un pomeriggio di fine luglio 2018, per la grave insufficienza e mancato coordinamento dei soccorsi. Un ultimo esempio che non riguarda tecnicamente il governo Syriza-Anel, ma lo schieramento politico-sindacale che lo sostenea, è il procedimento disciplinare a carico di alcuni giornalisti “incolpati” di essersi pronunciati, prima del referendum, contro l’alternativa destinata a prevalere, quella di respingere le proposte della Commissione europea, procedimento concluso con la condanna dei “reprobi” a sanzioni oscillanti tra sei e diciotto mesi di sospensione dal lavoro e dalla retribuzione. Motivazione: le difficili condizioni del Paese che rendevano inaccettabile (e quindi, se ne deve inferire, deontologicamente sanzionabile) una pubblica presa di posizione, da parte dei giornalisti perseguiti, contro l’orientamento del governo. Un dettaglio interessante è che il procedimento era si svolgeva nell’ambito del sindacato dei giornalisti ellenici, un sindacato per così dire obbligatorio, visto che era anche l’ente cui si versavano i contributi previdenziali dei giornalisti e che erogava le pensioni (temo che i coraggiosi Reporters sans Frontières siano all’oscuro di questo nobile esempio di promozione della libertà di stampa, e anche al predecessore di Teresa Ribera all’Osce dev’essere sfuggito).

Per concludere sul fronte interno, occorre spendere qualche parola su Karamanlis. La sua uscita pubblica sul caso intercettazioni è letteralmente la prima dichiarazione sull’attualità politica da quando, dopo la sconfitta elettorale dell’autunno 2009, si è chiuso in un silenzio impenetrabile, pur mantenendo la propria organizzazione politica personale in efficienza. Pur essendo all’epoca Karamanlis un importante esponente dell’opposizione, nessuna delle prodezze del governo Syriza-Anel, sopra esemplificate, ha meritato un suo commento, una sua dichiarazione, uno spiffero proveniente “dagli ambienti di”. Nulla. In realtà era di dominio pubblico il suo – tacito o meno – “patto di  non aggressione” con Tsipras, che sembra durare ancora oggi. Karamanlis (che aspira da sempre a concludere la propria carriera politica con l’elezione a presidente della Repubblica) ha due problemi, non giocarsi i voti del partito avversario del proprio, voti necessari all’elezione del capo dello stato che richiede la maggioranza di due terzi e, secondo ma non meno importante, conservare intatta la propria immagine che potrebbe venire intaccato ma un pubblico esame retrospettivo della politica dei due governi che ha diretto (2004 – 2007 e 2007-2009), che si è conclusa con un disavanzo di bilancio di oltre il 15% malamente occultato con artifici contabili e che ha creato i presupposti per il dissesto delle finanze pubbliche venuto alla luce, nel 2009-2010, “grazie” all’innesco rappresentato dalla crisi finanziaria internazionale. Per occultare le responsabilità delle politiche dei governi Karamanlis, fatte di assunzioni massicce nel settore pubblico per “controbilanciare” quelle altrettanto clientelari dei precedenti governi Pasok, Tsipras non esitò a promuovere (i vertici giudiziari in Grecia sono scelti dal governo) una vera e propria persecuzione giudiziaria ai danni del presidente dell’istituto  statistico ellenico (Elstat), il professor Andreas Geogiou, “colpevole”, da capo dell’Elstat, di avere applicato e fatto applicare puntigliosamente le regole dettate dall’Eurostat, e quindi di aver fatto emergere l’intero debito lasciato in eredità da Karamanlis ai governi successivi. La persecuzione di Georgiou fu talmente sfacciata da provocare ripetute reazioni indignate dei principali organismi statistici del mondo ma Tsipras non allentò mai la presa: tra la disistima di alcuni professori di statistica e il debito di riconoscenza di un leader di peso del partito avversario non c’era partita. E anche per Karamanlis il calcolo era ed è elementare: Nea Dimokratia non può certo alimentare una campagna contro un suo ex presidente del Consiglio e dunque pagando un prezzo all’ “avversario” di là della barricata non corre nessun rischio e in più indebolisce il proprio rivale interno.

Sul fronte esterno l’inimicizia della Turchia è in parte strutturale, ma in parte indirizzata alla persona di Mitsotakis, e del suo ministro degli Esteri Nikos Dendia, che hanno realizzato in questi anni una politica particolarmente sgradita a Erdogan (alleanza strategica con la Francia e intensa attività di costruzione di legami con gli altri Paesi del Mediterraneo orientale, potenziamento delle strutture e degli equipaggiamenti delle forze armate, per molti anni abbandonate a se stesse, rigida difesa dei confini terrestri, marittimi e aerei che – non si stancano di ripetere gli esponenti del governo Mitsotakis – sono anche i confini dell’Unione europea (sarebbero, forse, più di essere, perché non è chiaro se la Ue in quanto tale possa o voglia rivendicare propri confini: è più interessata a rivendicare i valori in nome dei quali modula la regolazione del traffico di confine, che come tutti i valori fluttuano). Se si pensa alla celebre frase di Tsipras del 2016, quando nel bel mezzo della crisi migratoria esclamò – riferendosi all’Egeo: “ma in mare non ci sono confini!” a giustificazione della inazione del suo  governo, è inevitabile concludere che, dovendo scegliere, a Mitsotakis Erdogan preferirà senza la minima esitazione Tsipras.

C’è poi da considerare, sul fronte esterno, la Germania, che ha sempre vissuto con qualche mal dissimulato fastidio l’esigenza di prendere partito sull’aggressività turca sui “confini” orientali dell’Ue. Fastidio spiegabilissimo con l’antica consuetudine di buoni rapporti tra la Germania e l’Impero Ottomano sin dei tempi del Kaiser Guglielmo II (secondo alcuni storici la Germania fu anche assai vicina ai “giovani Turchi”, quanto meno nella giustificazione ideologica dei genocidi da costoro perpetrati nel primo  ventennio del secolo scorso e anche un po’ oltre). Negli ultimi decenni il rapporto con la Turchia si è ulteriormente consolidato con i milioni di Gastarbeiter turchi divenuti una comunità assai influente anche nella politica tedesca. Fastidio spiegabile ma difficile da giustificare se lo si chiama aol proprio nome, ossia come sostanziale mancanza di solidarietà nei confronti un Paese, la Grecia, partner nella stessa Unione di stati, la Ue che pretende di essere di esempio al resto del mondo.

Sotto un altro aspetto va ricordato che nel 2014 la Germania di Angela Merkel, ispirando alla Commissione europea un’applicazione assai rigorosa della “cura”, fatta di indigeste riforme, prescritta dalla Troika alla Grecia in quegli anni,  mise in una posizione assai difficile governo ND-Pasok presieduto Antonis Samaras, già uscito ammaccato dal risulto delle elezioni europee di maggio, e aprì così la strada alla vittoria elettorale di Syriza del gennaio del 2015, per prendere poi letteralmente sotto la propria ala protettrice Tsipras. È probabile che anche la Germania, come la Turchia, potendo o dovendo scegliere, tra Tsipras e Mitsotakis sceglierebbe il primo.

In conclusione, quanto meno a Bruxelles, a Berlino e a Ankara verosimilmente non si  verserebbero lacrime se l’opposizione riuscisse a far cadere il governo Mitsotakis. E anche a Atene non sarebbero solo le opposizioni a brindare: è inevitabile che, governando, Mitsotakis abbia scontentato qualcuno anche nel mondo degli affari, e la compattezza del partito non si può dare per scontata, non solo a causa del “patto di omertà reciproca” che lega Karamanlis a Tsipras.

Ci sono un paio di “ma”, anzi tre, che inducono a dubitare che alla fine Mitsotakis sia costretto a gettare la spugna. Il primo, lo si è già osservato, è di ordine tecnico: il partito che esprime il governo in carica dispone della maggioranza dei seggi in parlamento. È vero che Tsipras in questi anni (e probabilmente anche prima, da quando aveva iniziato la scalata al vertice di Syriza) si è dimostrato assai abile nel creare divisioni nel campo avversario: pur con una retorica giacobina, ha governato per quattro anni e mezzo in coalizione con un piccolo partito di estrema destra nazionalista, Anel di Panos Kamenos. L’ipotetica votazione della sfiducia al governo Mitsotakis da parte di Karamanlis e/o di suoi accoliti avrebbe, tuttavia, il significato di una scissione di Nea Dimokratia, qualcosa di molto simile a un suicidio politico da parte di chi porta il nome del fondatore di quel partito.

Il secondo “ma” riguarda Syriza. Sotto le nubi sempre più nere che coprono il cielo politico e economico dell’Europa, in una situazione dove il pericolo di casus belli di provenienza turca nell’Egeo aumenta con l’approssimarsi della data delle elezioni presidenziali in Turchia, con le sorprese che può ancora riservare la guerra in Ucraina,  con l’inflazione già a due cifre in Europa, i sinistri scricchioli che arrivano dal mondo delle imprese e l’inverno inclemente che ci aspetta, una campagna elettorale giocata sulla “character assassination” dell’antagonista, arte di cui Tsipras è maestro, può risultare stucchevole perfino per un elettorato di bocca buona come quello ellenico.

Infine, terzo “ma”, non c’è solo Syriza, bisogna fare i conti anche con Pasok-Kinal, in notevole ascesa, quanto meno nei sondaggi, dopo l’elezione di Androulakis al vertice del partito. Il dibattito parlamentare sulle intercettazioni ha messo in evidenza un “dettaglio” che, opportunamente strumentalizzato, potrebbe far molto male all’immagine del nuovo leader. Androulakis non ha potuto intervenire nel dibattito in Aula ma si è visto costretto a farsi “difendere” da un non celeberrimo compagno di partito, il dentista Michail Katrinis, simpatico, buon oratore, con una discreta esperienza (eletto per la prima volta nel Pasok nel 2007, un passato nell’assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa), ma con un peso ancora modesto nel panorama politico ellenico. Il fatto è che Androulakis è tuttora membro dell’europarlamento e questo gli impedisce di prendere la parola nella Voulì, il che per il capo del terzo partito – sia pure a notevole distanza dal secondo – è singolare se non imbarazzante. I maligni fanno infatti notare che in quanto membro del parlamento europeo guadagna una somma mensile oscillante tra i 16 mila e i 19 mila euro oltre a 25 mila euro riservati agli stipendi dei collaboratori: piuttosto di dovervi rinunciare, dicono i maligni, ha preferito sinora rinunciare al diritto di parola nel parlamento del Paese che pure aspira a governare. Tsipras, che se otterrà un buon risultato alle prossime elezioni cercherà di dar vita a una coalizione, in prima battuta proprio col Pasok-Kinal, è saltato a piedi uniti nel vuoto lasciato dalla forzata assenza di Androulakis per giocare anche il ruolo di “lord protettore” dei cugini socialdemocratici (nello schieramento di sinistra della Voulì, Syriza gioca a fare la “sinistra radicale”, i cugini fanno la parte dei “socialisti riformisti” e poi ci sono i compagni del Kke, nella imperturbabile continuità del partito comunista greco di obbedienza sovietica (i cui rapporti con le altre formazioni di sinistra e centro sinistra sono, tradizionalmente, piuttosto freddi).

Di sicuro molti dei parlamentari del Pasok-Kinal non hanno gradito le “premure” di Tsipras, che ha costruito le sue fortune politiche in buona parte sulla capacità di “risucchiare” nel suo partito la cospicua quota di populisti “di sinistra” presente nel Pasok (prima di venir ribattezzato Kinal). D’altra parte, pur essendo un politico scaltro e un fuoriclasse della retorica populista, il presidente di Syriza ha un limite. Sa usare con la stessa maestria tutto quanto serve per aizzare le folle e rassicurare i potenti: la chiave incendiaria, provocatoria, insinuante o sarcastica, oppure quella untuosa fino all’adulazione come si vide nella “intervista” che gli organizzò Bill Clinton a New York nel settembre del 2015. Però non ha molto senso della misura e gli è estranea la consuetudine del dialogo con un pubblico raziocinante ma non necessariamente consenziente, qualità utili quando non si gioca in casa. E il Pasok-Kinal per il momento non è la sua casa, è il concorrente di Syriza, e non è pronto per una campagna elettorale. Nel frattempo, non si corre il rischio di annoiarsi. Con una denuncia alla Procura ateniese Syriza ha già di fatto aggiunto, e forse sovrapposto la Magistratura alle commissioni parlamentari preposte: tanto per garantirsi che la campagna del “Watergate greco” non esca dalle prime pagine e dai telegiornali.

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