All’inizio del Cinquecento, nella ricerca di una lingua dotata dello stesso prestigio letterario e culturale del latino, il dotto veneziano Pietro Bembo, in un trattato noto come Prose della volgar lingua (1525), fissa l’ideale estetico e le regole grammaticali che in seguito saranno seguite a lungo dagli scrittori italiani. Secondo Bembo, per scrivere opere che possano essere lette nel corso dei secoli occorreva prendere come modelli Petrarca nella poesia e Boccaccio nella prosa. Per altro verso, intorno al 1530 l’umanista marchigiano Angelo Colucci nei suoi appunti linguistici nomina il termine “dialecti” in relazione al “mutar delle lingue”, cioè alle differenze tra le diverse zone d’Italia.
Il 15 novembre 2012, nella “lectio magistralis” sullo “Stato di salute della lingua italiana pronunciata all’Università di Urbino Carlo Bo in occasione del conferimento di una laurea honoris causa, Andrea Camilleri sostiene che” il padovano di Ruzante, il milanese di Carlo Porta, il romano di Belli, il napoletano di Di Giacomo, il siciliano dell’abate Meli, hanno prodotto opere di altissimo valore letterario che hanno arricchito la nostra lingua”. Quindi lamenta l’apertura nell’epoca postunitaria di una guerra insensata contro i dialetti che, pur raggiungendo il suo apice apice nel fascismo, aveva svenato il “principale donatore di sangue” della lingua nazionale.
Ora, se dopo il 1861 i dialetti sono stati combattuti con una determinazione tale da suggerire l’immagine di una catastrofe, resta da spiegare come mai essi hanno continuato a occupare uno spazio considerevole nella comunicazione quotidiana, e a conoscere perfino insperati momenti di gloria. Forse a causa di quanto scrive Eugenio Montale nella poesia La storia: “La storia non è poi/la devastante ruspa che si dice./Lascia sottopassaggi, cripte, buche/e nascondigli. C’è chi sopravvive”. Beninteso, una crisi dei dialetti è incontestabile, ma essa risale alla metà del Novecento, con l’istruzione di massa e con la trasformazione dell’Italia da paese agricolo a paese industriale e dei servizi. Tuttavia, “la malerba dialettale”, come recita il titolo di un saggio del critico letterario Pietro Mastri (1903), è ben lungi dall’essere stata estirpata.
Basta pensare alla fortuna nient’affatto paesana, ma nazionale, del teatro dialettale di Pirandello e Musco, di Petrolini, di Totò, di Eduardo. Un teatro dialettale apprezzato non solo nei paesi d’origine, ma soprattutto nelle grandi città, e non dai ceti meno istruiti, ma da quelli più colti: “Ai livelli più alti di cultura intellettuale e urbana, non ai più bassi si apprezza quel fatto non di incultura paesana, ma di cultura che è il plurilinguismo del teatro dialettale italiano” (Tullio De Mauro, L’Italia delle Italie, Editori Riuniti, 1992). Si potrebbe aggiungere che il neorealismo segna l’ingresso stabile nel cinema d’autore, e che nei film di Luchino Visconti, Vittorio De Sica, Federico Fellini, Elio Petri, Gabriele Salvatores, Giuseppe Tornatore, Paolo Sorrentino, per fare qualche nome, è sempre presente una componente dialettale.
Ciononostante, sulla realtà e sullo statuto linguistico dei dialetti continuano a circolare opinioni gratuite o spesso non corrette, e non soltanto sui social network. Un caso di scuola è quello del dialetto siciliano. Circa quarant’anni fa, in un’intervista rilasciata alla giornalista francese Marcelle Padovani, Leonardo Sciascia attribuiva all’assenza del tempo futuro nella sua terra un significato antropologico: “La paura del domani e l’insicurezza qui da noi sono tali che si ignora la forma futura dei verbi. Non si dice mai ‘domani andrò in campagna’, ma dumani vaju in campagna, domani vado in campagna’. Si parla del futuro solo al presente. Così quando mi si interroga sull’originario pessimismo dei siciliani, mi vien voglia di rispondere: ‘Come volete non essere pessimista in un paese dove il verbo al futuro non esiste?'” (La Sicilia come metafora, Mondadori, 1979).
Il linguista Salvatore Claudio Sgroi ha rintracciato la fonte di questa “suggestione sciasciana” in un’affermazione dello storico inglese Denis Mack Smith: “In un’economia in cui tutto era precario, un comune lavoratore della terra non poteva mai fare programmi per l’avvenire, neanche a breve scadenza. Forse la mancanza del futuro nel dialetto siciliano era espressione di questa difficoltà a pensare al domani” (Storia della Sicilia medievale e moderna, Laterza, 1970). La verità è, però, che l’assenza del futuro si registra in molti dialetti italiani. Non è di casa nel Mezzogiorno e anche in alcune regioni settentrionali. Il “presente in luogo del futuro per di più è diffuso anche in italiano. Ognuno può rendersene conto se presta attenzione all’italiano effettivamente usato nella comunicazione orale” (Nicola De Blasi, Il dialetto nell’Italia unita, Carocci, 2019).
Ma torniamo al punto. L’illustre filologo Gianfranco Contini ha scritto che “l’italiana è sostanzialmente l’unica grande letteratura nazionale la cui produzione dialettale faccia visceralmente, inscindibilmente corpo col restante patrimonio”. E precisava, ad esempio, che la voce di Salvatore Di Giacomo “è in assoluto una delle più poetiche del suo tempo, forse la maggiore del periodo chiuso tra i “Canti di Castelvecchio” e “Alcyone” e i poeti nuovi”, ossia tra i primi anni del Novecento e l’esperienza di Giuseppe Ungaretti e Montale. Nella nostra storia letteraria, insomma, l’uso del dialetto non nasce mai da un monolinguismo alternativo alla conoscenza dell’italiano. In altre parole, i dialetti non sono lingue parlate da “altri” italiani in una “altra” Italia.