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Javier Milei

Il Sudamerica tra urne, violenze e rassegnazione

Che cosa succede in Brasile, Cile, Colombia e Venezuela. L’approfondimento di Livio Zanotti

 

Adesso non si tratta più di esaurimento o d’interruzione dei cicli che scandiscono talvolta telluricamente il metabolismo socio-economico sudamericano. È sempre arrischiato tentare una sintesi delle diverse crisi che con una malignità in gran parte inedita stanno scuotendo da un capo all’altro i paesi del subcontinente. Pur condividendo molta della loro propria storia, ciascuno di essi ha una propria irrinunciabile identità che ne caratterizza anche i momenti più difficili. Questi che la pandemia del coronavirus ha finito per rendere catastrofici, presentano tuttavia alcune comuni tendenze a un rinnovamento che rafforzi la società civile e i diritti di tutti. Nel bene e nel male, del resto, il lavoro di pur relativa assimilazione compiuto dalla globalizzazione ha ovviamente prodotto i suoi effetti anche in Sudamerica.

Il quadro complessivo della regione è in accentuata tensione e mostra analogie marcate. Nel trascorso fine settimana, dei 14 milioni 728mila cileni chiamati a eleggere in un unico turno l’assemblea Costituente che dovrà redigere la nuova Carta Magna per sostituire quella ereditata da Pinochet e le amministrazioni locali, si è presentato un esiguo 43 per cento. Risultato nondimeno sufficiente a sconvolgere gli assetti trentennali del sistema politico. Continuano in Colombia le selvagge violenze della polizia sui manifestanti scesi in piazza contro nuove imposte e gli scontri tra bande paramilitari ai confini con il Venezuela. Il senato di Brasilia ha messo sotto inchiesta il negazionismo del governo di Jair Bolsonaro, per aver abbandonato il paese indifeso alla virulenza del Covid (16 milioni di contagiati, 450mila morti), alla disoccupazione e all’ inflazione. Pesanti incognite finanziarie insidiano tutti i paesi della regione e i rispettivi equilibri istituzionali.

È in crisi il rapporto di fiducia tra rappresentanti e rappresentati, dunque a palpitare è il cuore della democrazia. L’inquietudine assilla intere popolazioni (450 milioni di persone) spingendole a reagire con rabbiosa aggressività o — all’opposto — con rassegnata disperazione, che sono le due facce della stessa medaglia: quella di una profonda insoddisfazione non solo materiale ma esistenziale. Da cui deriva il rifiuto a rilasciare deleghe da parte dei più energici e dei più emarginati, che non sempre coincidono con i più consapevoli. Dei giovani in primis e in prima fila, stanchi delle condizioni in cui si sentono costretti ad affrontare le loro giornate. Gli studenti a fronte di un’istruzione sempre più cara e che sempre meno garantisce loro un futuro, tutti gli altri sulla soglia d’un ingresso al lavoro più enigmatico di una Chimera.

Sulla scia di esempi europei più che nordamericani, giornali, web e librerie non fanno mancare i sermoni di una sociologia che senza molti giri di parole attribuisce ai giovani (ma anche ai 50/sessantenni espulsi anticipatamente dalle continue ristrutturazioni dei sistemi produttivi) una scarsa attitudine alla fatica del rischio e del sacrificio. Una visione che nella precarietà latinoamericana appare perfino più azzardata che altrove. Qui prevale l’impressione che siano le profonde e crescenti disuguaglianze a venire ormai percepite non più soltanto come un indilazionabile tema sociale ed economico, bensì come una questione culturale, di vita, che assume una dimensione etica. E che la politica tradizionale, i suoi partiti non sembrano comprendere in tutte le interazioni e urgenze che ne conseguono.

Il caso cileno è esemplare, se non altro perché quest’aggettivo -esemplare- è con ogni probabilità il più condiviso in Cile e fuori, al momento di definire l’immagine di quel paese. Dalla sconfitta al referendum sulla dittatura di Pinochet (1988) e dall’elezione del democristiano Patricio Aylwin alla presidenza della Repubblica (1990) fino a oggi, in una transizione governata molto più a lungo dal centro-sinistra che dal centro-destra (ma sempre condizionata dal permanere di una qualche tutela militare sancita dalla Costituzione), quell’aggettivo è stato il suggello patriottico rivendicato alla (quasi) unanimità. A cui viene attribuita non poca parte della pace sociale e dell’innegabile crescita economica realizzata.

L’una e l’altra di tanto in tanto vacillanti, ma sempre in piedi. Come se la solidità istituzionale fosse il contrappeso ai frequentissimi bradisismi e terremoti di quella terra iper-sismica. O, fuori di metafora, la psicologia collettiva cilena avesse introitato come un imperituro vaccino contro ogni violazione delle convenzioni sancite ufficialmente, la memoria degli innumerevoli lutti e privazioni provocati del colpo di stato che portò alla morte (non meno esemplare) di Salvador Allende. Finché di colpo, nello stupore dei più, l’apparentemente poco importante aumento del prezzo dei trasporti pubblici ha scatenato nel 2019 una combattiva mobilitazione di piazza, sospesa soltanto e neppure immediatamente dall’invasione del Covid. Pronta a ripartire.

In Colombia, anche il presidente Ivan Duque si è detto sorpreso dalla resistenza popolare alla sua pretesa di aumentare le tasse ai più tartassati. Vi ha rinunciato solo dopo il fallito tentativo di reprimere uno sciopero generale che polizia e reparti dell’esercito hanno trasformato in un massacro: 44 morti, 429 scomparsi, decine di donne hanno denunciato di essere state violentate da agenti di polizia, una ragazza di 17 anni si è suicidata dopo essere stata trascinata a forza in un commissariato. Jair Bolsonaro, ancora sostenuto dai militari che occupano il suo governo e non da tutti volentieri, è stato però abbandonato dai maggiori alleati politici che ora lo accusano di irresponsabili negligenze, continua con ostentata baldanza a rassicurare i suoi residui seguaci dagli schermi televisivi di alcune chiese evangeliche.

L’esito elettorale cileno, infine, è andato oltre i pur numerosi segnali che facevano temere un collasso della partecipazione e una radicalizzazione del voto. Accade così che l’esempio assuma anche valore simbolico. Il Covid, i timori di contagio, hanno giocato la loro parte; ma non vengono considerati determinanti. Da tempo in Cile il voto non è obbligatorio e già nelle precedenti consultazioni l’affluenza elettorale superava stancamente il 50 per cento. Nel passato fine settimana stando alle prime analisi avrebbero disertato anche numerosi elettori sotto i 30 anni. A restare in casa sarebbe stato il grosso della classe media moderata, meno oppressa da bisogni immediati, meno attrezzata a sostenere contraddizioni, asprezze e furbizie della battaglia politica, delusa dalla destra del governo Piñera, ma anche dal centro-sinistra spesso votato in passato.

I partiti tradizionali hanno subito una debacle. A risultare decisivi nell’Assemblea composta di 155 rappresentanti che dovranno redigere la nuova Costituzione saranno gli indipendenti, 48 eletti di varia estrazione sociale e politica ma privi di affiliazione dichiarata. Fa eccezione il partito comunista, che nel 2014 partecipò al secondo governo di Michelle Bachelet, prendendo poi sempre più distanza dalla Concertación. In alleanza con il Frente Amplio, scaturito dalle proteste studentesche del 2011, divengono il primo gruppo dell’opposizione nella Costituente (con 28 rappresentanti). Sopravanzano il centro-sinistra. Hanno conquistato vari municipi, per la prima volta quello della capitale, Santiago; e il loro candidato alle elezioni presidenziali del prossimo novembre, Daniel Jadue, ottimamente piazzato nei sondaggi, è stato confermato a grande maggioranza sindaco del noto centro residenziale di Recoleta.

Nell’ammettere che la maggioranza che presiede non ha raggiunto il quorum previsto per esercitare il diritto di veto nella Costituente, il capo dello stato, Sebastian Piñera, ha commentato che “né il governo, né l’opposizione tradizionale risultano in adeguata sintonia con le richieste e le aspirazioni della gran parte del popolo cileno”. Dello stesso tono le dichiarazioni del centrosinistra. Heraldo Muñoz, candidato alle Presidenziali per il Partito della Democrazia, ha aggiunto che “questi risultati elettorali hanno definitivamente sepolto la vecchia alleanza di centrosinistra, già morta da tempo”.

 

ildiavolononmuoremai.it

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