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Ciad

Il presidente del Ciad appena rieletto muore per ferite di guerra

Il presidente del Ciad, Idriss Déby Itno, ha vinto alle elezioni dell’11 aprile, il 20 aprile è stata annunciata la sua morte. Il punto di Enrico Martial

 

Il 19 aprile, il 68enne presidente del Ciad, Idriss Déby Itno, è stato confermato vincitore con il 79,3% dei voti alle elezioni dell’11 aprile, il 20 aprile è stata annunciata la sua morte. Era il sesto incarico da presidente, dopo aver represso l’opposizione, modificato la costituzione nel 2018 sui limiti ai mandati, consolidato i rapporti di forza e d’interesse con la Francia e l’Occidente, tra sforzi militari in casa propria e nel Sahel.

Un consiglio militare di transizione, guidato dal figlio 39enne, Mahamat Idriss Déby, ha assunto le funzioni di governo per 18 mesi. Idriss Déby è stato al potere per trent’anni, dal 4 dicembre 1990, dopo aver cacciato Hissène Habré, ora all’ergastolo in Senegal per crimini contro l’umanità.

Secondo la ricostruzione principale, sarebbe morto per le ferite riportate nel fine settimana, forse sabato, nella regione di Kanem, a 300 km dalla capitale N’Djamena. Si sarebbe trovato insieme a forze dell’esercito che si scontravano con i ribelli del “Fronte per l’alternanza e la concordia nel Ciad” (FACT). Aveva iniziato come militare, e alimentava questa postura, da tutti riconosciuta, con l’abitudine di raggiungere i luoghi di conflitto, dove effettivamente prendeva il comando.

Quattro elementi vanno sottolineati per questo evento, che segna uno spartiacque per il Ciad e per il Sahel, tra jihadismo, povertà e risorse naturali, instabilità politica, interventi occidentali e di mezzo mondo.

DOPO IDRISS DÉBY, IMPROBABILE UN’ALTERNANZA POLITICA MATURA

Il primo è interno. Idriss Déby ha cacciato con l’aiuto di Francia e Stati Uniti nel 1990 un dittatore sanguinario, appunto Hissène Habré, che fu peraltro aiutato sempre da Francia e Stati Uniti nel conflitto con la Libia, in particolare tra il 1983 e il 1986. Ha instaurato un sistema meno sanguinario, ma sempre conforme al pregiudizio sulle autocrazie africane, con una stretta élite di governo, un’economia fragile, difficoltà di sviluppo, corruzione, interessi globali sulle risorse naturali o sulla posizione geografica, repressione dell’opposizione, candidati fantoccio alle elezioni per salvare la forma. A meno di sorprese, non si vede un’alternanza matura all’attuale contesto politico, né nelle proteste davanti all’ambasciata ciadiana a Parigi, né nel contesto interno e nelle personalità locali, né in un presunto gruppo capace di un complotto, di cui al momento non si vedono tracce. Si profila piuttosto una continuità, disegnata sulla figura del figlio e sull’attuale cerchia militare dirigente, per quanto fragile e provvisoria.

UNA POSIZIONE DI RENDITA GEOPOLITICA FONDATA SULL’INSTABILITÀ

Il secondo elemento è geopolitico, perché Idriss Déby ha goduto per trent’anni di una posizione di rendita favorita dall’instabilità del Ciad, esposto sia alle incursioni di ribelli dalla Libia sia al crescere del jihadismo in casa, nel Sahel e in tutti i Paesi vicini. Ciò ha messo paradossalmente il governo del Paese in una condizione privilegiata.

Il Ciad è più stabile rispetto agli Stati quasi-falliti vicini, per quanto ancora nel 2019 un’incursione ribelle diretta alla Capitale è stata fermata solo dall’intervento aereo francese, mentre nel 2008 era giunta alle mura del palazzo presidenziale. L’esercito del Ciad è comunque migliore nel paragone con i vicini, sia per le azioni di formazione ricevute sia per la relativa esperienza sul campo. Tutti hanno chiuso un occhio per quest’ultima sesta rielezione farlocca, visto che dopo aver tentennato, Idriss Déby aveva assicurato nel 2020 una forza di 1200 uomini nella zona di conflitto jihadista tra Niger, Mali e Burkina. Questa posizione di rendita “geopolitica” non verrà meno, ed è un’opportunità per chi prenderà dall’interno le redini del Paese.

LA FRANCIA PERDE UN AMICO CORAGGIOSO MA È PREOCCUPATA

Il terzo elemento da considerare è nella Francia, che “perde un amico coraggioso” secondo le parole dell’Eliseo, e “un alleato nella lotta contro il terrorismo nel Sahel”, a sentire la ministra francese della difesa, Florence Parly, la quale governa la base aerea francese e il quartier generale dell’operazione Barkhane a Fort-Lamy, vicino alla capitale N’Djamena.

Il punto è che la scomparsa di Idriss Déby, per quanto autocrate, aggiunge un nuovo problema al tentativo occidentale e francese di riprendere il controllo sull’instabilità del Sahel. La Francia si confronta con difficoltà finanziarie, cioè di costo in carico a un Paese solo, militari (5100 soldati più i mezzi) e difficoltà politiche, con denunciati danni “collaterali” sui civili sotto osservazione di ONU e ONG, come possibili errori nei bombardamenti, o accuse di stupro da parte dei soldati ciadiani.

Ci mancava proprio la morte del presidente ciadiano, in questa crisi jihadista. Il contesto non è stato finora favorevole, per la recrudescenza degli attacchi, per il disimpegno annunciato da Trump sul ruolo statunitense, fondamentale su informazioni e supporto, per la presenza di altri attori, come la Cina, per la fatica al coinvolgimento europeo, a cui di deve la task force Takuba, a cui si sono peraltro aggiunti tre militari belgi in questi giorni.

Con la morte di Idriss Déby, vi sono preoccupazioni rispetto all’attuale classe dirigente del Paese che ospita il quartier generale dell’operazione Barkhane. Si pensa al rischio di un crollo da stato-fallito o comunque a gravi deficienze dell’organizzazione statale, e si riflette dunque ai prossimi mesi.

LA GEOGRAFIA NON AIUTA

Il quarto elemento da considerare è strutturale e geografico. Il Paese è difficile da separare dalle instabilità e dalle minacce terrestri esterne, persone e merci non si possono fermare a una frontiera delimitata fisicamente. Salendo verso nord dalla capitale N’Djamena, il deserto e la rarefazione della presenza umana rendono il concetto di frontiera labile, con una zona tra Libia, Niger e Ciad che consente tratte illegali e presenze di gruppi militari organizzati, la “rébellion permanente”. Sono luoghi inoltre ostili all’autorità statuale, per esempio tra le lunari montagne del Tibesti, da 350 km per lato, in cui la vetta dell’Emi Koussi raggiunge i 3415 metri sul livello del mare.

Da quelle parti fu tenuta in ostaggio una giovane archeologa francese per 33 mesi, un caso nazionale all’epoca di Giscard d’Estaing degli anni Settanta, poi raccontato nel film “La prigioniera del Deserto” di Raymond Depardon.

 

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