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Design

Il design nella società delle immagini. Il Bloc Notes di Magno

Il Bloc Notes di Michele Magno

Noi italiani siamo noti in tutto il mondo — oltre che per la pizza e la moda — per il design. Oggetti di puro design sono ormai esposti nei più importanti musei (così come, talvolta, le collezioni dei grandi stilisti). Nell’opinione corrente, design è sinonimo di creatività, di ricercatezza, di buon gusto. Inoltre, è “quel certo non so che” che distingue certi prodotti industriali. In Italia il primo imprenditore che lo ha applicato alla sua produzione è stato Adriano Olivetti, che negli anni Cinquanta affidò a Marcello Nizzoli il disegno della Lettera 22.

Come sistema culturale, il design è figlio dell’immaginario costruito dall’estetica modernista, incentrata su una radicale riduzione all’essenziale delle forme. È l’ideale totalizzante che tiene insieme lo show room di Armani, gli appartamenti dai muri bianchi alla Le Corbusier, il minimalismo zen di Muji, fino alle composizioni di nouvelle cuisine dove un ciuffetto di prezzemolo troneggia sul vuoto di una campitura di rafano. Si tratta di uno dei miti più importanti del Novecento: quello della semplicità. La sua storia è ricostruita in uno splendido saggio (di cui sono debitrici queste note) di Riccardo Falcinelli, tra i nostri più apprezzati designer nel campo della grafica (“Critica portatile al visual design. Da Gutemberg ai social network”, Einaudi, 2019).

Il mito della semplicità ha origini antiche e nasce, prima che come fatto estetico, come imperativo etico. A inizio Cinquecento, fu la mentalità protestante a imporre l’understatement come valore. Già nei ritratti di Hans Holbein (1497-1543) si vede la borghesia del Nord vestita di nero, in aperto contrasto con i colori sgargianti esibiti dai principi delle corti cattoliche: un abbigliamento percepito come spreco, mancanza di senso della misura. Vestirsi di nero era considerato, al contrario, un segno di rigore morale e di compostezza interiore, di quella sobrietà di costumi che doveva caratterizzare chi era diventato ricco grazie al lavoro e non ai privilegi della nascita.

Proprio a questo modello di vita si ispirerà una peculiare esperienza di design, legata a un ramo del calvinismo puritano sorto nel primo Settecento e diffusosi rapidamente negli Stati Uniti: gli Shakers. Questi, sotto la spinta del loro attivismo religioso, si dedicano all’invenzione di oggetti di arredamento spogli di qualsiasi ornamento decorativo, che avranno un’influenza determinante su tutto il design successivo. Le loro sedie, strutture ridotte all’osso, sono il prototipo della nostra sedia di uso comune, e anticipano di due secoli la concezione del minimalismo casalingo dell’Ikea.

È questo il modello che si afferma nell’incipiente rivoluzione industriale. E infatti ancora oggi, in occasioni eleganti, non possiamo non vestirci di nero. Lo smoking è “l’ossimoro prestigioso del glamour non ostentato”. In proposito, un celebre battuta di Henry Ford recita: “Ogni cliente può avere una mia vettura di qualunque colore, purché sia nero”. Ma lo styling americano — come sottolinea Falcinelli — è stato l’incubatore di un altro grande mito novecentesco: l’idolatria per il nuovo. Il design migliore è sempre l’ultimo, secondo una tendenza dura a morire. La ragione è evidente: l’economia capitalistica non può sussistere senza merci deperibili e quindi sostituibili.

Poco più tardi il design, come l’arte, diventa la garanzia di un’eccellenza che rassicura anche il committente meno preparato di non stare sbagliando. Si cerca non tanto il progetto ben fatto, ma la firma famosa, che possa suggellarne la qualità. Fu Tiziano il primo a rivendicare per il proprio lavoro lo statuto di opera d’ingegno, comportandosi come una specie di designer ante litteram. Gli altri pittori vendevano i loro quadri; Tiziano, nel 1567, ottenne dal senato veneziano i diritti sulla riproduzione dei suoi dipinti. Per la prima volta, in modo ufficiale, il valore non veniva calcolato sull’esecuzione materiale, ma sull’invenzione, sull’idea compositiva. Ma solo nel 1735 un altro pittore, William Hogarth, riuscì a ottenere il primo vero atto legale di riconoscimento della proprietà intellettuale, cioè i diritti d’autore applicati alle immagini.

L’idea del designer che si comporta come un artista ripropone così l’annosa questione: il design è arte? A questa domanda molti si rifiutano di rispondere, ritenendola vecchia e superata. Sostiene Falcinelli, invece, che non può essere ignorata, perché sono sempre di più i giovani che si avviano a una carriera nel design con intenzioni artistiche. Il problema è che, dopo l’orinatoio di Marcel Duchamp (1917), nessuno può circoscrivere con precisione il fatto artistico. Quando nel linguaggio di tutti i giorni diciamo “è arte”, più che a una definizione spesso ricorriamo a una metafora: diciamo “è arte” ma intendiamo “è come un’opera d’arte”, delegando ad essa il ruolo del disinteresse e della contemplazione. Ma forse un’arte siffatta -sganciata dalle esigenze quotidiane della società- non c’è mai stata, tanto che nel contratto di Botticelli si legge che la “Primavera” aveva una funzione di arredamento, ossia sarebbe stato appeso sopra una cassapanca.

Insomma, non è vero che il design è utile mentre l’arte è il tempio dell’espressione spassionata. L’arte contemporanea, ad esempio, muove ingenti somme di denaro solo per il suo valore simbolico, tramite il sistema delle Biennali e dei “Beaubourg”. Si tratta pur sempre di alta finanza fatta con altri mezzi. A guardar bene, conclude Falcinelli, arte, design e anche pubblicità sono oggi sempre più simili fra loro, e impiegano strategie comunicative e linguaggi comuni. Quello che cambia è solo il desiderio di valore; una differenza di prestigio, non di linguaggio: è il contesto istituzionale che stabilisce se una cosa è arte, design o pubblicità.

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