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Il carisma del leader e la questione del potere

Il Bloc Notes di Michele Magno

Per Max Weber il carisma implica l’adesione emotiva e totale di colui che agisce con la propria azione, la coscienza di una chiamata interiore (“Beruf”), la responsabilità e la dedizione a un fine. Su tale base si fonda la capacità di esercitare la leadership, ovvero un potere cui si aderisce in virtù della fiducia incondizionata nel capo e in forza delle qualità straordinarie che gli vengono attribuite.

La domanda, allora, è quella di sempre: perché il potere ha consenso? Di primo acchito, la risposta di Carl Schmitt sembra la più plausibile: “in certi casi per fiducia, in altri per paura, a volte per speranza, a volte per disperazione” (“Dialogo sul potere”, Adelphi, 2012). Secondo il giurista di Plettenberg gli uomini hanno bisogno di protezione, e cercano questa protezione nel potere. Il legame tra protezione e obbedienza è per lui l’unica spiegazione del potere. Chi non ha il potere di proteggere qualcuno non ha nemmeno il diritto di esigerne l’obbedienza. Viceversa, “chi cerca protezione e la ottiene non ha il diritto di negare la propria obbedienza”. Il potere ha una logica interna che va al di là di chi lo esercita: “è più forte di ogni volontà di potenza, più forte di ogni bontà umana e, per fortuna, di ogni umana cattiveria”. Il potere, insomma, non ha identità, ma produce identità, quella per il cui riconoscimento servo e padrone si affrontano nella hegeliana “Fenomenologia dello spirito”.

C’è però qualcosa di tragico in questa visione. Quando Schmitt concepisce il suo pamphlet (1954), il potere veniva già identificato da Martin Heiddeger con la “gabbia della tecnica”, con la capacità di ridurre gli uomini a “piccoli funzionari” dell’apparato globale. Tuttavia, il pensiero di Schmitt si discosta non poco da quello del filosofo di “Essere e tempo”, di cui era buon amico. Il titolo esteso del “Dialogo” recita, infatti, “sull’accesso a coloro che lo detengono”. Il problema del potere è cioè quello di come sia possibile entrarvi in contatto. Partendo dall’affermazione che “ogni potere diretto è sottoposto immediatamente a influenze indirette”, la sua conclusione è che “non esiste alcun potere senza questa anticamera, senza questo corridoio” (nel 1890 Bismarck si dimise quando l’imperatore Guglielmo rifiutò il preventivo assenso del cancelliere sui suoi ospiti a corte).

L’essenza del potere viene insomma solo adombrata, ma non enunciata esplicitamente.La condizione dell’uomo schimittiano di fronte al potere somiglia a quella del campagnolo della novella di Kafka “Vor dem Gesetz” (pubblicata nel 1915 e poi inserita nel romanzo “Il Processo”), che attende invano di poter varcare la porta della legge (“Gesetz”), perché un custode -da cui viene soggiogato- glielo impedisce. Analogamente, per il teorico dello “stato d’eccezione” davanti alla porta del potere c’è sempre “un’antichambre”, a cui prima bisogna accedere per poterla varcare. Ciò significa che del potere non vediamo mai il volto, ma soltanto la sua immagine riflessa nello specchio della storia, della lotta per la sua conquista. D’altronde, l’idea che il potere vero stia “altrove”, che sia invisibile e remoto ancorché influentissimo, ancora oggi è largamente diffusa.

Cos’è, allora, il potere? Voltaire diceva che consiste “nel far agire gli altri a mio grado”. Per Weber esiste ogni qualvolta ho la possibilità di affermare la mia volontà contro la resistenza altrui. Secondo Bertrand de Jouvenel, “Comandare ed essere ubbiditi: senza di questo non c’è potere, con questo non è necessario nessun altro attributo perché esso ci sia…La cosa senza la quale non può essere: quella essenza è il comando” (“La sovranità”, Giuffrè, 1971). Sono solo alcuni nomi del lunghissimo elenco di studiosi che considerano la violenza come la più flagrante manifestazione del potere. Alessandro Passerin d’Entrèves, invece, lo definisce come un tipo di “violenza più mite”, come “forza istituzionalizzata” (“La dottrina dello Stato”, Giappichelli, 2009). Dal canto suo, Hannah Arendt attribuiva la paternità delle concezioni imperniate sul “comando dell’uomo sull’uomo” al concetto di potere assoluto, coevo alla nascita dello Stato-nazione e teorizzato da Jean Bodin e Thomas Hobbes. “Oggi dovremmo aggiungere -annotava profeticamente nel 1969- la più recente e forse più formidabile forma di dominio: la burocrazia o il dominio di un intricato sistema di uffici in cui nessuno, né uno né i migliori, né i pochi né i molti, può essere ritenuto responsabile, e che potrebbe […] essere definito come il dominio da parte di Nessuno” (“Sulla violenza”, Guanda, 1996).

Se il potere non ha bisogno di giustificazione, essendo inerente all’esistenza stessa delle comunità politiche, non può però fare a meno della legittimazione: la violenza può essere giustificabile, ma non sarà mai legittimata. Questo assunto porta l’allieva di Heidegger a stabilire una differenza decisiva fra la dominazione totalitaria, basata sul terrore, e le tirannidi fondate con la violenza. Perché la prima si rivolge non solo contro i propri nemici ma anche contro i propri amici, avendo paura perfino del potere dei suoi sostenitori. E il colmo del terrore si raggiunge quando lo “Stato di polizia” comincia a divorare i propri figli, quando “i boia di ieri diventano le vittime di oggi”.

È pertanto insufficiente affermare che il potere e la violenza non sono la stessa cosa. Il potere e la violenza sono opposti; dove governa l’una, l’altro è assente. Questo implica che “non è corretto pensare all’opposto della violenza in termini di non violenza; parlare di potere non violento è di fatto una ridondanza”. Se la pratica non violenta di Gandhi si fosse scontrata con la Russia di Stalin, la Germania di Hitler, il Giappone anteguerra, invece che con l’impero britannico, probabilmente il suo esito sarebbe stato non la decolonizzazione, ma un massacro. Riassumendo: il potere fa senz’altro parte dell’essenza di tutti i governi, ma la violenza no. La violenza è per natura strumentale, mentre il potere è “un fine in sé”. È come la pace: un assoluto (anche se i periodi di guerra sono quasi sempre durati di più dei periodi di pace).

Ci sono però anche altri vocabolari del potere, che non parlano soltanto dell’innato istinto di dominio dell’uomo e della sua speculare, congenita inclinazione all’obbedienza. C’è il vocabolario delle donne, anzitutto di quelle donne che hanno saputo affilare le proprie armi -la bellezza, l’intelligenza, la seduzione, l’astuzia- per mettere in discussione l’arbitrio maschile nella politica, nella cultura, nell’arte. C’è poi il vocabolario di quella tradizione liberale che, partendo dai moralisti scozzesi (David Hume, Adam Smith e prima ancora il loro maestro Francis Hutcheson) e dalla nozione di “simpatia”, ha visto il suo ideale compimento nella Scuola austriaca di economia.

Si deve in particolare a Lorenzo Infantino, infaticabile promotore in Italia del pensiero di Carl Menger, Eugen Böhm-Bawerk, Ludwig von Mises, Friedrich von Hayek, il tentativo di sviluppare il discorso liberale sulla natura del potere in un contesto più vasto: una teoria generale del potere sociale (“Potere. La dimensione politica dell’azione umana”, Rubbettino, 2013). Come ha osservato Alberto Mingardi, il docente della Luiss adotta una prospettiva non lontana da quella di un grande liberale italiano: Bruno Leoni. Proprio il discepolo di Gioele Solari è l’artefice, sul finire degli anni Cinquanta, di una delle più originali trattazioni in chiave liberale del concetto di potere. Le sue “Lezioni di dottrina dello stato” (Rubbettino, 2004) segnano una sorta di rivoluzione copernicana nell’infinito dibattito sull’origine e le radici del potere, che ribalta il vecchio primato dell’elemento conflittuale e lo sostituisce con il primato dell’elemento cooperativo. Per Leoni gli individui si scambiano incessantemente beni (economia), pretese (diritto), poteri (politica), e da questi scambi si formano “dal basso” gli assetti istituzionali in cui si articola la sovranità statuale.

Anche “l’archeologo dei saperi” Michel Foucault nutriva la stessa insoddisfazione per le teorie del potere che privilegiano il suo lato coercitivo. In un saggio di cui consiglio vivamente la lettura, Antonio Masala ha messo in rilievo le singolari convergenze tra uno dei numi tutelari della gauche francese e un liberale -con tendenze libertarie ante litteram- come il presidente della “Mont Pelerin Society” (“Riflessioni sul potere. Un confronto tra Bruno Leoni e Michael Foucault”, in “Le ragioni della libertà”, a cura di R.A. Modugno, Rubbettino, 2014). Entrambi, in effetti, considerano il potere come una rete di relazioni tra individui diffusa in tutto il corpo sociale. E per entrambi il problema dello Stato va analizzato a partire dalla struttura delle relazioni umane, dalla “microfisica del potere”, e non da una sovranità che proviene dall’alto.

Il capolavoro di Leoni, “Freedom and the Law” (“La libertà e la legge”, Liberilibri, 1995, pubblicato in inglese nel 1961), è un aspro atto d’accusa contro il positivismo giuridico, contro ogni concezione del potere inteso come strumento di dominio e non di cooperazione tra individui diversi. La critica di Foucault al formalismo giuridico, che irrigidisce il potere in “un fenomeno di dominazione compatto e omogeneo”, si muove nello stesso solco. Per il grande storico della follia, del crimine, della sessualità, era necessario sbarazzarsi del “modello del Leviatano”: “Le relazioni di potere sono sia quelle che gli apparati dello stato esercitano sugli individui, sia quelle che esercita il padre di famiglia sulla moglie e sui figli, il potere che esercita il medico, il potere che esercita il notabile […] Non c’è dunque una fonte unica dalla quale scaturirebbero come per emanazione tutte queste relazioni di potere […]” (“Il potere, una bestia magnifica”, ora in “Biopolitica e liberalismo”, Medusa, 2001). Il potere è dunque sempre ripartito -sia pure non equamente- tra tutti gli individui. A conti fatti, le opinioni di Foucault “non sono sempre le stesse di Leoni, ma è evidente che anche per lui vi è un percorso della politica contemporanea che va in direzione contraria rispetto alla libertà individuale, e che deve essere guardato con notevole preoccupazione” [Masala, cit.].

Pochi decenni prima di Leoni e Foucault, commentando la morte di Lenin, Antonio Gramsci aveva affidato le sue riflessioni sul potere al settimanale “Ordine Nuovo” (1 marzo 1924). Esse si collocano agli antipodi della tradizione liberaldemocratica, ma offrono qualche spunto di discussione su un tema che da almeno un ventennio monopolizza le cronache della politica domestica. “Ogni Stato -scriveva l’allora segretario del Partito comunista- è una dittatura. Ogni Stato non può non avere un governo, costituito da un ristretto numero di uomini, che a loro volta si organizzano intorno a uno dotato di maggiore capacità e maggiore chiaroveggenza. Finché sarà necessario uno Stato, finché sarà storicamente necessario governare gli uomini, qualunque sia la classe dominante, si porrà il problema di avere dei capi, di avere un capo “.

Gramsci teorizzava dunque la necessità di quella leadership carismatica che oggi viene vista col fumo negli occhi dai suoi (sedicenti) eredi, né mancava di deridere la posizione di “quei socialisti [che sostengono di volere] la dittatura del proletariato, ma di non volere la dittatura dei capi, […] che il comando si personalizzi”. Egli si riferiva ovviamente al partito operaio, ma non è certo un caso che tutte le esperienze totalitarie -di destra e di sinistra- si siano rette su un culto della personalità assoluto, che saldava bisogno di adorazione delle masse e megalomania del leader.

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