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Sorveglianza

I Servizi, i servizietti, la sorveglianza e la punizione

Il corsivo di Teo Dalavecuras

 

Ignoravo l’esistenza di Jon Gruden finché non è comparsa sullo schermo del mio laptop la seguente breaking news del New York Times: “Jon Gruden, allenatore appartenente alla National Football League ha fatto commenti omofobici e misogini, oltre a osservazioni razziste, in email viste da The Times”.

Nel corso del doveroso approfondimento della sensazionale notizia ho appreso, nell’ordine, che:

1. Gruden era allenatore del Las Vegas Raiders;

2. già la settimana scorsa the Wall Street Journal aveva rivelato che, in una mail di dieci anni prima, Gruden paragonava le labbra di DeMaurice Smith, executive director della NFL Players Association, nero, a pneumatici Michelin;

3. Gruden aveva poi, a quanto pare vanamente, spiegato che la metafora era un modo per dare a Smith del “labbra di gomma”, cioè del bugiardo, e non per fare sarcasmo sui tratti somatici del dirigente sportivo.

La faccio breve: Gruden ha subito rassegnato le dimissioni dichiarando il suo affetto per i Raiders e la conseguente scelta di non diventare una “distrazione” per la squadra, concludendo con le parole di circostanza: “Grazie a tutti i giocatori, allenatori, collaboratori e tifosi. Mi dispiace, ma non ho mai avuto intenzione di offendere nessuno”.

La vicenda dell’allenatore americano si è svolta quasi in contemporanea con quella di Sebastian Kurz, il cancelliere austriaco che ha dato forfait sabato 9 ottobre sull’onda di altre “rivelazioni”: cinque anni fa avrebbe finanziato con fondi pubblici indagini demoscopiche dirette a favorire il suo partito, il Parito popolare austriaco. Si è congedato dichiarando: “Mi importa più del mio Paese che della mia persona. Faccio spazio per evitare il caos e garantire la stabilità”.

Poche settimane fa, a cinque anni dai Panama Papers arrivano i soliti milioni di documenti sottratti agli archivi dei professionisti operanti nei paradisi fiscali, battezzati questa volta Pandora Papers e affidati a quell’International Consortium of Investigative Journalists che più di un’associazione di reporter sembra un ente addetto alla cernita e pubblicazione, per conto di ignoti mandanti, di dati tratti da dossier acquisiti con metodi apparentemente criminali.

In tutti i casi si tratta di una procedura consolidata per colpire e affondare personaggi pubblici o addirittura categorie professionali senza le lungaggini e i fastidi delle procedure parlamentari o giudiziarie. La differenza è che i politici sono solitamente più accorti nell’uso delle parole e quindi lì bisogna puntare sulla carne o sul portafoglio, mentre con un allenatore basta la memoria di un computer e il gioco è fatto. Che poi qualcuno – è il caso dell’allenatore – sia chiamato a rispondere e perda il lavoro in virtù di ciò che pensa e aveva affidato, dieci anni prima, alla propria corrispondenza privata, non impensierisce nessuno, anzi.

Ci sono due aspetti paradossali e una preoccupazione in questo ritorno della pratica medioevale di “sorvegliare e punire” (che, d’accordo, in quanto tale non è mai stata dismessa).

Il primo è che in un’epoca nella quale si spende una quantità enorme di tempo e di denaro per “garantire” la privacy, nessuna tutela della vita privata è più concessa. Lo scandalo dei Pandora Papers sembra essere la “scoperta” che i ricchi cercano di tenere segrete, e di proteggere nei limiti del possibile dai famelici esattori del fisco le loro ricchezze (anche se in un mondo dove circolano “manifesti” di ricchi che “invocano” dagli Stati una tassazione più pesante, ci sarebbe da farsi anche qualche domanda di carattere antropologico).

Il secondo si riferisce alla circostanza che le procedure che prevedono la pubblicazione dell’accusa seguita senza soluzione di continuità dalla punizione del reprobo costituiscono – già oggi – la tomba di quello stato di diritto che dovrebbe costituire l’ossatura dei regimi democratici.

Il sistema dei media, che si è infatti trasformato nel “boia collettivo” dell’esecuzione di queste sentenze, è però lo stesso (di qui il paradosso) che quotidianamente diffonde allarmi sulle minacce alle quali è esposta la democrazia liberale, minacce che anche persone solitamente prudenti come Paolo Gentiloni attribuiscono alla stessa esistenza di Paesi a regime autoritario come la Cina e la Russia (Turchia, Arabia Saudita – dovremmo averlo imparato! – saranno anche retti da regimi autoritari ma non “ci” minacciano).

Quanto alla preoccupazione, per quel che vedo solo mia e forse addirittura stravagante, nasce da questo. Un conto è sapere che nella lotta, politica ma non solo, delle regole si cerca di abusare a proprio vantaggio, un conto è attribuire a queste pratiche legittimità pubblicamente riconosciuta, perché nel secondo caso quel che succede è che la fiducia nello stato di diritto svanisce.

Un conto è sapere che tutti i governi dei regimi democratici, laddove sia possibile giocano col calendario elettorale a proprio vero o presunto vantaggio, un conto è proclamare pubblicamente la necessità di evitare “a qualsiasi costo” elezioni anticipate perché rischierebbero di vincerle partiti o movimenti che costituiscono una minaccia per la democrazia in quanto sovranisti e/o populisti: il costo, in questo secondo caso, è la fiducia nei processi democratici che si spegne: perché sottoporsi al fastidio di sacrificare il week-end al voto quando è già stabilito e notorio quali forze politiche sono legittimate a governare e quali invece no?

Dal punto di vista “metodologico” poi, è inevitabile constatare che con l’abrogazione di fatto e anche ideologica del diritto alla privacy di segreto nel mondo sono rimasti solo i Servizi, e gli avvicendamenti ai vertici della politica sono decisi sempre più spesso da dossier e sempre meno da processi elettorali (pensiamo alla sorte di Helmut Kohl): si tratta di una trasformazione radicale dei regimi democratici. Certo, in Occidente, la libertà individuale non è compromessa (anche se Luca Morisi potrebbe pensarla diversamente). Ma siamo sicuri che non sia piuttosto una questione di prospettiva? Siamo sicuri d’essere adeguatamente informati sulla vita quotidiana negli “imperi del male” di Cina e Russia?

Di sicuro, un’inchiesta sul ruolo che nel mondo occidentale e democratico i servizi di intelligence in senso lato hanno avuto negli sviluppi politici degli ultimi decenni sarebbe di grande interesse ma temo che l’International Consortium of Investigative Journalists sia troppo impegnato per occuparsene.

Ben venga insomma la teppaglia che devasta il centro di Roma se consente ai benintenzionati di sentirsi ancora una volta dalla parte giusta, ma si fa una gran fatica a credere che i pericoli per la democrazia vengano da lì. È più facile credere che vengano dalla progressiva (anche in senso ideologico) trasformazione delle società democratiche strutturate e differenziate in aggregati indifferenziati organizzati secondo il principio dell’uno vale uno, il totem dell’uguaglianza e il bando di ogni separatezza e segreto (sotto quest’ultimo aspetto, è ovvio che definire ogni muro un “male” in assoluto e un “bene” ogni ponte, sempre in assoluto è un nonsenso: ma, stando alla retorica prevalente, non è abbastanza ovvio).

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