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Banchieri Brexit

I numeri dell’effetto Brexit sull’Italia (e sulla Lombardia)

L’Italia non risulterebbe la nazione più colpita qualora la Brexit si verificasse, e sicuramente l’uscita senza accordo penalizzerebbe di più la Germania. Il punto di Daniele Meloni

Il 28 ottobre scorso il Consiglio Europeo e il Regno Unito si sono accordati per spostare la data della Brexit al 31 gennaio 2020. Per quella data sapremo chi avrà vinto le elezioni inglesi del 12 dicembre e quale seguito avrà avuto l’accordo sulla Brexit firmato dal premier Johnson con Bruxelles, seguito dalla Dichiarazione Politica che stabilirà i futuri rapporti tra l’UE e la Gran Bretagna.

Al momento sono ancora aperte tutte le possibilità. Johnson ha visto il suo accordo approvato ai Comuni dopo le tre bocciature che hanno stroncato il governo May, ma è presto per dire quale sarà l’esito del referendum del 23 giugno 2016. Il Regno Unito potrebbe uscire con un accordo (auspicato un po’ da tutte le parti), potrebbe uscire senza alcun accordo (si tratta dell’ipotesi “no deal” non ancora del tutto scongiurata), o potrebbe esserci un secondo referendum in cui l’opzione di restare nell’Unione potrebbe tornare in gioco.

Certo è che, come what may, gli stati europei non possono farsi trovare impreparati di fronte a un evento destinato a segnare economicamente e geopoliticamente il Continente. Se a Roma si sta pensando più alle beghe interne alla pittoresca maggioranza giallorossa e ai travagli della manovra, il mondo di certo non si sta fermando. Il 1. Ottobre si è riunita a Palazzo Chigi la task force Brexit del governo italiano, presieduta dall’ambasciatore Pietro Benassi. Al centro del vertice la tutela dei diritti dei cittadini italiani che vivono nel Regno Unito e dei cittadini britannici che vivono in Italia, la tutela della stabilità finanziaria e della continuità operativa dei mercati e dei settori bancario, finanziario e assicurativo nei rispettivi Paesi e la promozione di un’adeguata preparazione delle imprese all’eventuale emergenza di un “no deal”.

Proprio l’ambito economico-finanziario è quello che più preoccupa. La pronosticata fuga di massa da Londra di banche, assicurazioni e fondi di investimento non c’è stata, e le iniziative per rafforzare Borsa Italiana a seguito di un indebolimento della London Stock Exchange (Lse) – la Borsa di Londra – sono andate a cozzare contro l’apatia delle istituzioni e un fatto talmente lapalissiano da essere sottovalutato dai più: Piazza Affari è controllata al 100% proprio dalla Lse, e non è ancora chiaro quello che potrà succedere a Milano dopo l’uscita di Londra dall’Unione. Ci potranno essere ripercussioni negative? Milano perderà di appeal a livello europeo? Come si comporterà il gruppo londinese titolare della società italiana? Su questi quesiti si cela il riserbo (sic) più assoluto.

C’è poi la questione delle società quotate: come riportato dal Corriere Economia del 21 ottobre scorso, vale un quinto di tutta la capitalizzazione del nostro listino il peso dei titoli esposti alle vicende d’Oltremanica. Si tratta di una cifra di poco inferiore ai 100 miliardi di euro. Alcune società sono più esposte, altre meno. La Falck Renewables per esempio ha generato oltre 47 milioni di Ebitda nel Regno Unito nel primo semestre 2019 su un totale di oltre 100 milioni. Colossi come Leonardo e Ferrari hanno fatturato e redditività in area sterlina per oltre il 10% del totale. E poi ancora ci sono Moncler, Piaggio, Tod’s, Technogym, De Longhi e tante altre.

L’Italia non risulterebbe la nazione più colpita qualora la Brexit si verificasse, e sicuramente l’uscita senza accordo penalizzerebbe di più la Germania che nel settore manifatturiero e dell’automotive ha il Regno Unito tra i partner principali. Certo, in quella che viene definita la “catena del valore globale”, di rimbalzo, anche il nostro Paese si troverebbe a fare i conti con il rallentamento – peraltro già avvenuto – della locomotiva tedesca.

La nostra locomotiva, la Lombardia, sarebbe la regione più penalizzata dalla Brexit. Infatti, secondo i dati del policy paper di Eupolis – il centro studi lombardo – intitolato “L’Unione Europea Post-Brexit” commissionato dal Consiglio regionale nel 2017, l’interscambio tra i prodotti lombardi e il Regno Unito equivale a quasi un quarto (24%) delle intere esportazioni italiane, e oltre un terzo (34%) delle importazioni.

Il Regno Unito ha praticamente lo stesso peso nelle esportazioni lombarde di quanto ne abbia a livello nazionale (5,5%). Le esportazioni italiane verso il Regno Unito vedono una prevalenza di mezzi di trasporto (16%), prodotti alimentari, bevande e tabacco (15%), macchinari e apparecchi (14%) e prodotti tessili e abbigliamento (14%). Le esportazioni lombarde ricalcano in parte quelle italiane, ma vi sono alcune differenze. Da un lato, scendono significativamente i mezzi di trasporto (12%) e i prodotti alimentari (9,5%). Dall’altro, raddoppia la rilevanza di metalli di base e prodotti in metallo (dal 6% nazionale al 13% regionale) e di sostanze e prodotti chimici (dal 4% al 10%). In generale, le esportazioni lombarde verso il Regno Unito sono maggiormente diversificate includendo prodotti a maggiore valore aggiunto come i chimici e gli apparecchi elettrici.

Dati interessanti ci sono anche in tema di Ide (Investimenti Diretti Esteri). La ridotta internazionalizzazione del sistema industriale-manifatturiero italiano, riduce i rischi di conseguenze negative, come ad esempio un improvviso ritiro di capitali britannici dal Paese. Le imprese britanniche che partecipano in aziende italiane sono 421, ovvero circa il 7% del totale degli investimenti esteri in Italia. Il Regno Unito è in questo senso il quinto Paese per provenienza di Ide in Italia, dopo il 21% di provenienza tedesca, il 17% statunitense, il 9,4% francese e il 7% svizzero.

Nel 2015, le 421 imprese britanniche partecipavano in 860 imprese italiane (il 7,7% del totale delle partecipate), le quali a loro volta davano lavoro a 68.500 persone (7,2%) e producevano fatturato per 33,5 miliardi. Nel 2008 il numero di imprese italiane controllate da capitale britannico era 865: c’è stata dunque una leggera flessione negli ultimi 7 anni in particolare nel nord-ovest.

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