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Operazione Horizon Shield,

Tutto sull’operazione Horizon Shield

Un’operazione senza missili, ma con droni e jamming: così Israele ha bloccato la Flottilla, nuova frontiera della guerra in mare. Israele riscrive la dottrina delle interdizioni marittime ma a quale prezzo politico? L'intervento di Luca Longo

Il giorno dello Yom Kippur, il 1° ottobre 2025, il Mediterraneo orientale si è trasformato in un campo di battaglia invisibile. Nessun missile, nessuna sirena, nessuna esplosione all’orizzonte. Solo una serie di piccoli punti luminosi sui radar della marina israeliana – yacht e piccole imbarcazioni – diretti verso la Striscia di Gaza. Tutti battevano bandiere diverse, ma – almeno in teoria – avevano un obiettivo comune: forzare il blocco navale imposto da Israele e consegnare ai civili palestinesi viveri, carburante e medicinali.

Alle 20:30, ora di Israele, il comando israeliano attivava l’Operazione Horizon Shield, la più vasta interdizione marittima “non letale” mai condotta nella regione dai tempi della guerra del Libano.

L’OPERAZIONE SEGRETA CHE HA RISCRITTO LE REGOLE DEL GIOCO

A differenza dei raid del passato, Horizon Shield non prevedeva né armi da fuoco né affondamenti. La strategia era diversa: fermare le navi, sequestrarle e dirottarle verso i porti controllati da Israele, utilizzando solo mezzi di dissuasione elettronica e interferenze GPS.

Ma, dietro la definizione burocratica di “misure non letali” si nasconde un’operazione di altissima complessità tecnica. Vi hanno partecipato tre unità della Shayetet 13 (שייטת 13, o “Flottiglia 13”: i commandos navali israeliani), supportate da navi della flotta missilistica, unità di sicurezza navale Snapir, insieme ad altre forze della Marina.

Lo Shayetet 13, con base navale ad Atlit, a sud di Haifa, rappresenta l’unità di ricognizione principale (Sayeret) della Marina israeliana e conta circa 300 operatori altamente addestrati. La forza è articolata in tre compagnie specializzate: l’unità haposhtim, incaricata di raid, azioni dirette e anti-terrorismo marittimo; l’unità subacquea, dedicata ad attacchi e sabotaggi sottomarini; e l’unità di superficie, paragonabile agli Special Boat Teams statunitensi.

Dal punto di vista gerarchico, lo Shayetet 13 risponde direttamente al Comandante della Marina israeliana, che riferisce al Capo di Stato Maggiore dell’IDF. A livello internazionale, l’unità è considerata l’equivalente israeliano dei Navy SEALs e dello Special Boat Service britannico. La selezione è tra le più dure delle forze armate: occorre un “profilo medico codice 97” (indispensabile per entrare nelle unità di combattimento d’elite), un corso di addestramento di 20 mesi e un servizio minimo di quattro anni e mezzo, contro i tre anni previsti per la leva ordinaria.

Le capacità operative includono l’inserimento sull’obiettivo tramite elicottero con tecnica di fast-roping (gli operatori si calano rapidamente e simultaneamente sull’obiettivo con corde individuali), l’impiego di gommoni a scafo rigido ad alta velocità Zodiac, l’infiltrazione subacquea da sottomarini della classe Shayetet 7, e l’uso di imbarcazioni d’attacco rapido tipo Sunnit. L’arsenale comprende sistemi d’arma letali e non letali, con un’attenzione crescente a questi ultimi dopo le lezioni apprese dal caso della Mavi Marmara nel 2010.

IL NUOVO PARADIGMA MILITARE

Per questa operazione, sono stati impiegati droni marini di nuova generazione ed un sistema mobile di guerra elettronica.

La fase di avvicinamento è iniziata quando le corvette israeliane – oscurate e invisibili ai manifestanti – hanno creato un ampio perimetro di sicurezza attorno alla flottiglia, dispersa su un’area di diversi chilometri quadrati. Grazie all’impiego combinato di droni da sorveglianza e di unità navali non illuminate, le forze israeliane hanno potuto mantenere un monitoraggio costante evitando di svelare la propria presenza. L’effetto sorpresa è stato preservato fino al momento in cui, simultaneamente, sono iniziati gli abbordi.

Durante le settimane precedenti, il monitoraggio delle comunicazioni fra le unità della Flotilla ha permesso di identificare le 14 imbarcazioni con a bordo i leader e di intercettarle in simultanea. In meno di 90 minuti, tutte queste erano sotto controllo israeliano.

Durante la fase di abbordaggio, le squadre dello Shayetet 13 hanno utilizzato due tecniche principali: il fast-roping dagli elicotteri direttamente sui ponti delle navi più grandi e l’abbordaggio laterale con scale dai gommoni per le imbarcazioni più piccole. I commandos erano equipaggiati con armi leggere (pistole e fucili d’assalto, non utilizzati durante l’operazione), strumenti per contenimento fisico, sistemi di comunicazione criptati e dotazioni di sicurezza in mare.

La sequenza operativa ha permesso di prendere il controllo di tutte le 42 navi senza uso di forza letale. L’abbordaggio contemporaneo delle imbarcazioni ha vanificato ogni tentativo di coordinamento difensivo fra le singole unità della Flotilla. L ’ultima imbarcazione, la “Marinette” battente bandiera polacca, è stata abbordata il 3 ottobre alle 10:29 locali, 38 ore dopo l’inizio delle operazioni.

Una volta catturati, gli attivisti sono stati disposti sul ponte con le gambe incrociate e le mani alzate. I commandos hanno così potuto verificare l’assenza di armi, rifocillarli e mettere in sicurezza chi era sprovvisto di giubbotto salvagente mentre le imbarcazioni venivano condotte al porto di Ashod, immediatamente a nord di Gaza.

LE “ARMI INVISIBILI”: DRONI, JAMMIING E OPERAZIONI PSICOLOGICHE

La neutralizzazione delle comunicazioni è stata una priorità tattica: immediata confisca di telefoni, laptop e videocamere, jamming attivo dei segnali satellitari e cellulari per impedire le trasmissioni in live streaming. Diversi attivisti hanno deciso di gettare i telefoni in mare per proteggere contatti e dati sensibili. La quasi totale assenza di immagini o filmati dell’azione ha rappresentato un successo strategico, in netto contrasto con il disastro mediatico seguito all’assalto della Mavi Marmara nel 2010.

La gestione dei detenuti nel porto di Ashdod ha seguito procedure amministrative d’immigrazione, non di arresto penale. Oltre 600 funzionari israeliani dell’Autorità per la Popolazione e l’Immigrazione erano già stati dispiegati per l’identificazione e la separazione per nazionalità. Dopo i controlli medici obbligatori e la verifica dei documenti, i prigionieri sono stati distribuiti fra la prigione di Ketziot e quella di Saharonim, distanti fra loro un paio di km e a 4 km dal confine egiziano.

Ai detenuti è stato concesso un colloquio consolare di almeno 15 minuti. A ciascuno è stata offerta la possibilità di una immediata espulsione volontaria firmando un’ammissione di “tentato ingresso illegale”. Chi ha rifiutato è stato invece trattenuto fino a 72 ore in attesa della procedura giudiziale di espulsione.

Non un colpo sparato, non una vittima. Un successo tattico perfetto, almeno in apparenza.

Secondo un’analisi pubblicata dal Center for Naval Analyses, l’operazione avrebbe impiegato un protocollo sperimentale noto come ROE-7, che consente l’uso combinato di disturbi elettromagnetici, droni leggeri, sistemi di dissuasione luminosa e acustica ad alta frequenza oltre a protocolli di immobilizzazione non violenta. Le navi civili, private del segnale GPS, isolate dalle comunicazioni satellitari e impossibilitate a comunicare fra di loro con megafoni o segnali luminosi, sono state costrette ad arrendersi.

“È la guerra elettronica portata nel diritto del mare”, ha commentato un ufficiale della Nato rimasto anonimo.

Ma le implicazioni legali di questa “interdizione silenziosa” restano controverse. Gli esperti occidentali di diritto marittimo sottolineano che, in assenza di dichiarazione di guerra e di pericolo immediato, un’azione di sequestro di navi civili in acque internazionali può configurarsi come un atto di pirateria di Stato.

L’ITALIA E HORIZON SHIELD

Tra le navi fermate vi era anche la MV Luna Rossa, battente bandiera italiana, con a bordo cinque operatori umanitari della ONG Mediterranea Saving Humans. I video diffusi successivamente dal Ministero della Difesa israeliano mostrano una “presa in consegna” incruenta: uomini disarmati scortati verso il porto di Ashdod.

Roma ha chiesto chiarimenti immediati. Il Ministero degli Esteri ha convocato l’ambasciatore israeliano, definendo l’episodio “inaccettabile e contrario al diritto internazionale”. Tel Aviv, dal canto suo, ha ribadito che l’azione era “necessaria per prevenire il traffico di armi destinate ad Hamas”.

Il risultato è stato un miniterremoto diplomatico: in meno di 48 ore, l’Unione europea ha chiesto un’indagine indipendente, mentre gli Stati Uniti — pur difendendo formalmente il diritto di Israele alla sicurezza — hanno evitato accuratamente di commentare le modalità operative dell’interdizione.

IL FRONTE INTERNO ISRAELIANO E LA “GUERRA LEGALE”

Dentro Israele, Horizon Shield è stata salutata come una dimostrazione di forza tecnologica. Ma la stessa stampa israeliana, dal Haaretz al Jerusalem Post, ha messo in luce il rischio di un effetto boomerang.

La dottrina militare israeliana, da decenni incentrata sulla deterrenza e sulla “guerra preventiva”, viene ora riscritta sotto il segno dell’interdizione cibernetica. È la “guerra senza sangue” che promette di salvare vite umane — ma che rischia di moltiplicare i fronti diplomatici e giudiziari.

Il Legal Forum for Human Rights di Tel Aviv sostiene che alcune parti dell’operazione violano l’articolo 87 della Convenzione ONU sul diritto del mare, che tutela la libertà di navigazione in acque internazionali.

Anche in patria, dunque, l’orgoglio per l’efficacia militare convive con il timore di un futuro caso Mavi Marmara, l’incidente del 2010 che costò a Israele anni di isolamento internazionale.

GAZA, LA “GLOBAL SUMUD” E IL NUOVO SCONTRO DI NARRAZIONI

Sul fronte opposto, la cosiddetta Global Sumud — la rete transnazionale di attivisti, ONG e movimenti pro-pal — ha organizzato manifestazioni di protesta in numerose città e definito l’operazione “un atto di guerra contro la solidarietà internazionale”.

Il blocco di Gaza, imposto nel 2007 e mai realmente allentato, è oggi al centro di una nuova campagna mediatica che accusa Israele di usare la sicurezza come pretesto per strangolare economicamente la popolazione civile.

In un mondo ormai polarizzato tra bolle informative diametralmente opposte e non conciliabili fra loro, Horizon Shield è diventata un simbolo: per Israele, l’esempio di come difendersi senza spargimento di sangue; per i suoi critici, la prova che anche la guerra elettronica può essere disumanizzante.

SUCCESSO TATTICO, FALLIMENTO STRATEGICO

Al netto della perfezione tecnica, l’operazione ha prodotto effetti politici disastrosi. Ha incrinato ulteriormente i rapporti con l’Europa, irritato Washington e rafforzato la percezione globale di un Israele sempre più isolato e autoreferenziale.

A poco è servito ricordare che gli aiuti umanitari, trasferiti a Gaza senza controllo, finiscono sistematicamente nelle mani di Hamas che li usa per venderli sul mercato nero agli affamati civili gazawi o direttamente per nutrire i suoi militanti. In due anni, nessun terrorista mai catturato o ucciso presentava segni di denutrizione. Spesso, al contrario, si è trattato di individui in evidente sovrappeso.

E nemmeno è servito mostrare al mondo che, delle dichiarate 45 tonnellate di aiuti umanitari portati dalle 42 imbarcazioni della Flotilla (pari al carico utile di un camion o due, mentre a Gaza ogni giorno entrano diverse centinaia di camion di aiuti umanitari) ne sono state in realtà ritrovate meno di due tonnellate, in buona parte degradate ed inutilizzabili.

“Horizon Shield è una vittoria tattica e una sconfitta strategica”, ha sintetizzato il generale in pensione Amos Gilad. “Abbiamo mostrato che possiamo bloccare il mare. Ma non che sappiamo navigarlo.”

La nuova dottrina israeliana di “interdizione non letale” potrebbe dunque diventare un paradigma per le guerre del futuro — o un monito sulla fragilità dei confini tra difesa, coercizione e diritto. In ogni caso, da quella notte di ottobre, anche il mare non è più lo stesso.

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