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Meghan

Harry, Meghan, il populismo e la casta dei giornalisti

Il corsivo di Teo Dalavecuras

 

Tanto tempo fa, negli anni felici ma irrimediabilmente trascorsi dell’università, avevo incontrato una persona di cui ricordo solo un’abitudine singolare: pur grande appassionato di football, non aveva mai messo piede in uno stadio e coltivava la sua passione ascoltando le radiocronache delle partite.

Questo ricordo è riemerso giorni fa. Già incuriosito dalla love story del principino Harry e di Meghan Markle, soprattutto da quella sorta di “liquidazione” che – se non ho frainteso – la Regina Elisabetta aveva concesso loro mentre consentiva che si aprisse – su richiesta dei piccioncini – la voliera dorata della dinastia Windsor in cui avventatamente la coppia si erano fatta ingabbiare anni fa, non potevo perdermi l’“esplosiva” (sic) intervista concessa da Meghan alla celebre giornalista americana Oprah Winfrey.

Ho ascoltato e letto diligentemente le cronache dell’evento e alcune analisi approfondite, ma per qualche motivo mi sono perso la cosa in sé, l’intervista, pur disponibile su canali televisivi gratuiti. La mia pretesa di maturare un’opinione e – peggio ancora, esprimerla – su questo argomento è quindi filologicamente inammissibile. Ma, nella “società liquida”, inseguire il rigore filologico ancora prima di suscitare ilarità sarebbe inutilmente pretenzioso.

Due analisi dell’evento mediatico ho trovato particolarmente illuminanti, l’invidiabile prosa un po’ psichedelica di Guia Soncini per Linkiesta e quella, di impareggiabile aplomb, dell’intervista concessa da Antonio Caprarica, il leggendario corrispondente Rai da Londra, a Linda Varlese per Huffpost. Ne trascrivo un passaggio per ciascuna.

Soncini: “Se un giorno doveste spiegare l’industria del vittimismo, potrete raccontare d’aver visto l’intervista per la quale due determinati a non lavorare proprio mai – neanche a fare quel lavoro che è sorridere a comando perché si fa parte di una famiglia reale – vengono difesi nelle loro fragilità dal pubblico medio: gente che lavorerà tutta la vita, e nel tempo libero s’intrattiene coi ricatti emotivi dei multimilionari”.

Alla domanda “Cosa può aver spinto Meghan a questo netto rifiuto della vita reale?”, Caprarica risponde: “Il motivo è che si è resa conto quando è entrata nella famiglia reale che è regolata dalla primogenitura, cioè che tutto il cucuzzaro va al primogenito. Se avesse studiato di più avrebbe scoperto che l’Inghilterra è l’unico Paese al mondo dove vige ancora il maggiorascato”.

Due giudizi scanzonati nella forma ma assai poco empatici (si dice così?) nella sostanza.

Al Tg7 della sera dell’intervista ho udito invece Enrico Mentana menzionare – col tono composto ma partecipe di chi sta per annunciare il servizio sul sisma di magnitudo 6 registrato poche ore prima – l’intervista e se non ricordo male anche il canale del digitale terrestre sul quale stava per andare in onda in Italia (forse questo è il motivo per cui ho continuato a seguire l’evento a rispettosa distanza, attraverso alcuni commenti di osservatori professionali della vicenda quotidiana).

Sarebbe ipocrita negare la vena di ironia, ma questa non riguarda né la mitica Oprah né Mentana, giornalista di grande mestiere; neppure i protagonisti della storia che, al massimo suscitano un po’ di curiosità e che, in ogni caso, approfittano della situazione come ogni comune mortale. L’ironia è motivata dal tono serioso, se non addirittura di denuncia, col quale i media mainstream hanno trattato la vicenda.

Il trattamento mediatico dell’intervista a Meghan è un esempio tra i tanti della modalità “populista” che impronta, in modo sempre più pervasivo negli ultimi trent’anni, la comunicazione a livello globale, una comunicazione largamente schierata su posizioni che si dicono “progressiste”, che nel suo insieme asserisce di avere in odio il populismo e che instancabilmente lo denuncia. Non sarebbe un problema, se fosse solo un modo di dire fuorviante: nessuno è così irragionevole da pretendere che gli addetti all’informazione chiamino le cose con il loro nome. Il fatto è che il sostegno dei media progressisti, la stragrande maggioranza, alla causa populista, non ha nulla di occasionale. Il movimento cinque stelle non avrebbe ottenuto non il 33, ma nemmeno il 3 per cento del voto popolare, se le sue provocazioni non avessero potuto contare sin dall’inizio (anche) sulla cassa di risonanza dei più autorevoli organi di informazione (oltre ad uno senza pretese di autorevolezza ma in compenso interamente dedicato alla causa), e un canale tv a disposizione, e soprattutto se non fosse stato preceduto dalla martellante campagna pubblicistica contro la “Casta” e da quella giudiziaria di Mani Pulite contro i partiti di governo. Poi, certo, M5S è stato addomesticato e schierato contro i “populisti” e ora, per i padroni del movimento – almeno ufficialmente Beppe Grillo e Giuseppe Conte – si tratterebbe di definire con l’erede di Roberto Casaleggio, il teorico del delirio anti-élite a cinque stelle defunto da alcuni anni, le condizioni della separazione consensuale: una questione di spiccioli e di mailing list, se ho ben capito.

Nessuna contraddizione, ovviamente, ma solo tanta spregiudicatezza. Del resto, che tutto debba cambiare perché nulla cambi, è una vecchia storia. Ci si può solo chiedere se questo gioco, ormai un po’ troppo sfacciato, da troppo tempo, non comporti qualche rischio anche per chi lo conduce, e non si tratta di “comuni mortali”.

Le case editrici e la “casta” dei giornalisti un prezzo considerevole l’hanno già pagato.

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