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Brexit

Hard Brexit, che cosa rischiano i Paesi europei? Dossier Ispi

L’analisi di Antonio Villafranca e Matteo Villa dell’Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale) dopo il voto del Parlamento inglese sulla Brexit   Il Parlamento inglese ha detto no all’accordo raggiunto lo scorso novembre dalla premier May con l’Ue dopo un negoziato lungo 18 mesi. Un accordo che i leader Ue considerano l’unico possibile,…

 

Il Parlamento inglese ha detto no all’accordo raggiunto lo scorso novembre dalla premier May con l’Ue dopo un negoziato lungo 18 mesi. Un accordo che i leader Ue considerano l’unico possibile, non solo perché Bruxelles e i 27 non intendono cedere su alcuni punti dirimenti, ma anche perché mancherebbe il tempo utile per un suo profondo rinegoziato.

Mentre dunque la data ufficiale di Brexit di fine marzo si avvicina, e con essa lo spettro di un Brexit senza accordo, quali saranno le prossime mosse di Theresa May? Rimarrà in carica? Sarà in grado di trovare un compromesso all’interno di Westminster e, prima ancora, all’interno del suo stesso partito? Quali le possibili ‘aperture’ da parte di Bruxelles? E se un accordo alla fine non venisse trovato, quali le conseguenze di un hard Brexit non solo per Londra, ma anche per i paesi Ue, Italia inclusa?

Rispetto al peso che l’Ue a 27 ha per il Regno Unito (vedi sopra), per nessun altro paese europeo Londra da sola può essere altrettanto rilevante. Tuttavia, sul piano commerciale l’importanza del Regno Unito varia a seconda del paese Ue che si prende in considerazione. Per esempio, verso il Regno Unito è diretto il 7% delle merci di Francia e Germania, mentre questa quota supera il 10% nel caso di Paesi Bassi e Irlanda. Oltre all’entità degli interscambi si può guardare anche al surplus commerciale. In questo caso, tra i paesi più esposti a un hard Brexit ci sarebbero Germania (48 miliardi di dollari) e Paesi Bassi (32 miliardi).

A confronto con gli altri grandi paesi Ue, l’Italia appare a prima vista meno esposta al rischio hard Brexit: solo poco più del 5% delle nostre esportazioni è diretto verso il Regno Unito. Tuttavia è proprio Roma ad avere il terzo maggiore surplus commerciale europeo nei confronti di Londra (12 miliardi di euro l’anno). Un surplus peraltro in aumento negli ultimi anni, che oggi rende il Regno Unito il quinto importatore di beni italiani. Tra i settori di punta del nostro export, i più esposti sono la meccanica strumentale, il tessile, il chimico e l’agroalimentare.

Anche dal punto di vista degli investimenti, uno scenario di hard Brexit dovrebbe avere un effetto limitato sull’Italia. Il nostro paese è infatti uno dei meno “internazionalizzati” tra le economie sviluppate, con una quota di investimenti diretti esteri equivalente al 19% del PIL nel 2016: una percentuale inferiore rispetto alla Francia (28%) e alla media Ue (che supera il 45%). Vale inoltre la pena di ricordare che molti investimenti britannici sono localizzati nel Nord Italia, e in Lombardia in particolare, con il rischio quindi di un effetto consistente a livello locale.

A fronte di rischi comunque relativamente contenuti per l’Italia, non va infine sottovalutato il possibile “effetto contagio”. Lo spread tra i titoli di stato italiani e quelli tedeschi è infatti già molto alto. Nelle scorse crisi legate a Brexit, come per esempio a marzo e a luglio di quest’anno, lo spread dell’Italia ha reagito spostandosi verso l’alto; tale aumento dimostra che qualsiasi elemento di instabilità, soprattutto quando avviene all’interno dell’Ue, si ripercuote immediatamente sull’Italia a causa dell’elevato debito pubblico e dipendenza dai mercati finanziari.

(estratto di un report che si può leggere qui)

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