Dopo la vittoriosa controffensiva ucraina del settembre 2022, la linea del fronte è rimasta praticamente immutata. La guerra da manovrata si è trasformata in una di attrito. Entrambi i contendenti sanno che non riusciranno a sfondare le difese avversarie e che, senza negoziati dall’esito accettabile per tutti e due, la guerra durerà a lungo. Teoricamente, in tali tipi di conflitto, chi ha più risorse prima o poi vince. Ma non è sempre così. Basti ricordare il Vietnam per gli USA o l’Afghanistan per l’URSS. Il prolungarsi delle guerre – e delle loro perdite e costi – comporta sempre un’erosione del consenso interno, a partire da quello di chi ha scelto di iniziare. Più lenta è quella di chi è attaccato e lotta per la sua sopravvivenza. Ad un certo punto, uno dei due contendenti decide che “il gioco per lui non vale più la candela” e cerca di guadagnare o consolidare con negoziati quanto non riesce a ottenere o a proteggere con le armi a costi e rischi accettabili.
Le strategie ucraina e russa, e anche quella occidentale, sono basate su tale logica. Per Kiev si tratta di sopravvivere anche in futuro, cioè con credibili garanzie di sicurezza. Per l’Occidente, l’obiettivo è di costringere il Cremlino a una pace che Kiev sia indotta ad accettare, anche con qualche cessione territoriale, ma ponendo quanto resterebbe dell’Ucraina in condizioni di sicurezza. Ciò richiede l’accettazione da parte di Mosca dell’esistenza di un’Ucraina indipendente e collegata al sistema di sicurezza occidentale. Il Cremlino dovrebbe rinunciare alla sua “guerra santa”, volta a de-nazificare, smilitarizzare e rendere neutrale l’Ucraina, nel modo previsto dai “famosi” piani di pace propagandati dalla Russia e presi per buoni da numerosi “allocchi” suoi simpatizzanti o, comunque, critici nei confronti dell’Occidente, specie dell’“anglo-sfera”.
Penso che il Cremlino abbia rinunciato alla “guerra santa” volta all’occupazione di una riottosa Ucraina, il cui controllo sarebbe molto costoso, e che voglia ormai limitarsi a salvare la faccia e il regime di Putin, ottenendo qualcosa che possa essere dichiarato “vittoria” e che gli consenta di uscire dal ginepraio in cui si è cacciato. Le sue speranze di successo sono ormai dipendenti dal fatto che un’eventuale presidenza Trump abbandoni Ucraina, e Europa al loro destino.
A parer mio, si tratta di un’illusione. Trump continuerà a sostenere l’Ucraina. Pretenderà che il “conto” dell’aiuto a Kiev, come quello della partecipazione USA alla NATO, vengano pagati dagli europei. Nella sua propaganda elettorale, ha comunque già annacquato le più rigide richieste, quale la pretesa di imporre in 24 ore o 3 settimane la pace, che non potrebbe che consistere nella resa senza condizioni di Kiev. Non può fare altrimenti. Comprometterebbe tutta la credibilità internazionale degli USA. Mike Pompeo, ex-capo della CIA e suo probabile Segretario di Stato lo ha messo chiaramente in evidenza su The Wall Street Journal. Il MAGA (Make America Great Again) diverrebbe una barzelletta. Non significa – anzi è incompatibile – con il Make America Alone, proprio dell’isolazionismo americano.
Il fattore decisivo è la resilienza, cioè il morale delle truppe e della popolazione ucraine. Non l’hanno capito molti dei sedicenti esperti strategici nostrani. Non solo quelli che pensano che la “vittoria” per Kiev e per i suoi sostenitori possa consistere solo in una trionfale parata nella Piazza Rossa. Ma anche quelli che sono convinti che in Ucraina si combatta una guerra per procura della NATO contro la Russia. L’Occidente avrebbe deciso di combatterla “fino all’ultimo ucraino”. Secondo loro, gli “ingenui” ucraini lascerebbero massacrare i loro giovani e distruggere le loro città perché gli scaltri occidentali li avrebbero convinti di resistere per i loro interessi, convincendoli di potere vincere. Sarebbe il primo caso nella storia che un popolo si faccia massacrare per gli interessi di un altro!
La capacità di resistenza delle truppe e dei popoli dipende dalla loro coesione e dall’importanza che attribuiscono alla posta in gioco. Per gli ucraini si tratta di sopravvivere non solo come Stato, ma anche come nazione, evitando la “rieducazione forzata” (dalla durata di venticinque anni), prevista da Putin per la loro “de-nazificazione”, cioè per la loro “de-occidentalizzazione”. Tale obiettivo finale non è mai stato modificato da Putin, malgrado le ripetute affermazioni sue e di molti occidentali secondo i quali gli ucraini dovrebbero cessare di resistere per evitare ulteriori perdite e distruzioni. Indubbiamente, la frase “combattere la Russia fino all’ultimo ucraino” è ad effetto. Ha però l’inconveniente di essere del tutto scollata dalla realtà del conflitto in Ucraina e anche da ogni precedente storico. In particolare non tiene conto che la maggioranza degli ucraini vuole continuare a resistere. In particolare non tiene conto delle motivazioni che inducono soldati e popoli a combattere. Riecheggia – spero inconsapevolmente – la “voce del padrone del Cremlino” e le “narrative” diffuse dalla disinformazione russa: ad esempio, che la guerra sia stata provocata dalla NATO e che non sia terminata per volontà dell’Occidente. Solo i “gonzi” possono crederci. Nessun popolo può sopportare le perdite e le distruzioni che subiscono gli ucraini se non lo vuole. Sono persuaso che anche in caso di sfondamento del fronte, gli ucraini continuerebbero a combattere con la strategia della guerra territoriale, che, per inciso, era quella che suggerivano a Zelensky gli USA e l’UK dopo il 2014. Tale strategia fu abbandonata solo dopo che Putin combinasse il disastroso pasticcio del blitzkrieg su Kiev.
In proposito, è una “balla” della propaganda russa che un negoziato dovrebbe partire dal trattato che sarebbe stato concordato tra russi e ucraini in Turchia all’inizio della primavera 2022. I negoziati erano ancora nelle fasi iniziali, come illustrato da Foreign Affairs e dal New York Times. Essi confermano quanto detto dal premier israeliano Bennett – allora altro mediatore fra Russia e Ucraina – circa il fatto di aver visto una dozzina di bozze di trattato di pace, una diversa dall’altra. La realtà è che non vi è stato nessun trattato condiviso. Ma solo bozze scambiate fra le due delegazioni. Il punto più controverso riguardava le garanzie di sicurezza, che dessero all’Ucraina una ragionevole certezza di non essere nuovamente aggredita. La “neutralità ucraina” – peraltro già prevista a Budapest nel 1994 e nel Trattato d’Amicizia fra Kiev e Mosca del 1997 – non poteva, né può bastare a Kiev, a cui sono necessarie assicurazioni ben più solide, che solo la NATO o gli USA possono darle. Inoltre, secondo Mosca la neutralità ucraina avrebbe dovuta essere garantita da un gruppo di Stati – fra cui la Russia – ciascuno con diritto di veto per ogni intervento. In pratica, Mosca si riservava il diritto di vietare un intervento contro una sua aggressione. Oltre a tale punto centrale il dissenso riguardava varie questioni. Ad esempio, con la “smilitarizzazione” gli ucraini prevedevano di mantenere 850 carri, mentre i russi volevano che fossero al massimo 250.
Insomma, occorre convincersi che al momento non vi sono alternative alla continuazione del conflitto. Gli occidentali – soprattutto gli europei tanto disattenti sul conflitto in Ucraina e tanto permeabili alla propaganda del Cremlino – dovrebbero convincersi di quanto sia importante la resistenza ucraina anche per loro, e che l’unica possibilità di porre fine al conflitto consiste nel persuadere Putin che con l’aumento del sostegno occidentale all’Ucraina, ha più da perdere che da guadagnare con la rinuncia a seri negoziati, che non pongano come precondizione del loro inizio la pratica resa dell’Ucraina.