skip to Main Content

Brexit

Vi spiego perché il governo di Theresa May sta barcollando

L’analisi dell’editorialista Guido Salerno Aletta sul governo May  Sta affondando senza speranze il Theresa May, il governo conservatore britannico che ha cercato fino a venerdì notte di mantenere il Regno Unito all’interno dell’orbita europea. L’unanimità, che era stata raggiunta nella notte di venerdì scorso a Chequers, residenza di campagna della Premier britannica, dopo dodici ore…

Sta affondando senza speranze il Theresa May, il governo conservatore britannico che ha cercato fino a venerdì notte di mantenere il Regno Unito all’interno dell’orbita europea. L’unanimità, che era stata raggiunta nella notte di venerdì scorso a Chequers, residenza di campagna della Premier britannica, dopo dodici ore di discussioni, era fondata su un compromesso insostenibile: bastava leggerla con attenzione, la dichiarazione sottoscritta, per capire che il partito conservatore non avrebbe mai potuto accettare una Brexit fatta solo a parole. Si trattava di una “Brino”, secondo l’acronimo appena coniato che sta per “Brexit in name only”.

Il testo integrale di tre pagine su cui si era stato trovato l’accordo, è stato rintracciabile solo sabato mattina, a cose fatte, e non per un caso: la riconquistata, e tanto sbandierata libertà del Regno Unito di stipulare accordi commerciali con altri Paesi al di fuori della Ue era sottoposta a condizioni praticamente impossibili da rispettare. Si esplicitava l’impegno del Regno Unito a mantenere fermi gli standard regolatori esistenti, il cosiddetto “common rule book”, ed in particolare l’insieme delle normative europee in materia ambientale, di cambiamento climatico, sociale e di impiego, e di protezione del consumatore, precisando che il Regno Unito non potrà aderire ad accordi che si ponessero “al di sotto degli standard correnti”. Legata mani e piedi a questi vincoli, la libertà di negoziare nuovi accorsi sarebbe stata praticamente inesistente. Era una clausola ben dissimulata, ma dirimente: a quella condizione, uscire dalla Unione per rimanere legata all’Unione suonava davvero beffardo.

La bufera era nell’aria da tempo, ed a nulla sono valse le accortezze con cui è stato costruito un consenso solo mediatico, con il governo schierato unanime a favore della proposta della Premier britannica. Appena sette minuti dopo la mezzanotte di domenica, la Reuters infatti batteva impietosa il comunicato che annunciava le dimissioni di David Davis, il Ministro incaricato delle trattative per l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea, presentate per protesta contro il piano approvato a Chequers. Nella prime ore del mattino veniva diffuso anche il testo della lettera di dimissioni: nel ruolo da lui ricoperto, ad avviso di Davis, serve una persona fortemente convinta della soluzione prospettata dal piano elaborato da Theresa Mey e non un “riluttante coscritto”. La posizione negoziale definita dal piano della May mette a suo avviso la Gran Bretagna in grandi difficoltà nelle trattative con la Unione europea, se non direttamente con le spalle al muro. Al di là di aver tradito il mandato referendario, con quel testo era stato commesso un errore politico enorme.

Quando un vascello si intraversa e poi disalbera, è davvero difficile riprenderne il controllo. Per Theresa May è stato un lunedì convulso: dopo le dimissioni di Davis sono seguite immediatamente quelle del Sottosegretario alla Brexit, Steve Baker. E non aveva fatto a tempo a rimediare in mattinata, nominando come sostituto di Davis il sottosegretario alla edilizia Dominic Raab, che a metà pomeriggio sono arrivate le dimissioni del ministro degli esteri Boris Johnson. Anche lui accusava la May di avere ceduto troppo, e troppo presto, definendo il piano con un termina irriferibile.

Mentre a Berlino la Cancelliera Angela Merkel rimaneva in attesa dell’arrivo del Premier britannico, per la visita già programmata al fine di illustrarle il piano di “free trade area”, a Londra si scatenava anche Jeremy Corbyn, il leader dell’opposizione laburista, secondo cui il governo è sprofondato nel caos, essendosi incapace di raggiungere un accordo con l’Ue: il piano della May non fa chiarezza su nessuno dei punti chiave, non garantisce un confine aperto in Irlanda e lascia il Paese “prigioniero della guerra civile Tory”. E’ necessario che ceda il passo, per un cambio della guardia a favore del Labour. Visto che i sondaggi gli sono favorevoli, spera nella indizione di nuove elezioni anticipate e, chissà, anche di un nuovo referendum.

In serata, sempre a Londra, Theresa May terrà l’incontro già programmato con i deputati del suo partito: a guidare i brexiteers c’è Jacob Rees-Mogg, che potrebbe guidare la raccolta delle 48 firme necessarie a innescare un voto di sfiducia ai Comuni, che renderebbe inevitabili le dimissioni della Premier la cui maggioranza si regge a mala pena, dovendo contare sui dieci voti del Dup, il partito democratico unionista irlandese.

Che a Bruxelles gongolino per quanto sta accadendo a Londra è fin troppo evidente: il Presidente della Commissione Jean-Claude Junker si è limitato a registrare gli eventi, rilevando in modo estremamente compassato che “mentre i governi passano, i problemi rimangono”. L’occasione della Brexit, con le difficoltà oggettive per definire il nuovo quadro delle relazioni commerciali, è davvero ghiotta: dimostra che non solo la adesione all’euro, ma anche la partecipazione all’Unione è una decisione storicamente irreversibile. La volontà popolare è stata richiesta su un argomento troppo complesso, ed ora chi lo ha fatto ne subisce le conseguenze.

I sostenitori della Brexit non mollano; quelli che tifano per il Remain non sono da meno. Viviamo in tempi rivoluzionari.

(articolo pubblicato su Mf/Milano Finanza)

Back To Top