I dati del Viminale ripercorrono gli annunci dei giorni precedenti: 111% in più gli sbarchi e tanti i morti nel mare nostro. So che questa mia riflessione non è in linea con la correttezza politica che si sottolinea con grande continuità del dovere dell’accoglienza ma io non dimentico che in un momento storico in cui gli esponenti di punta della Chiesa sembrano sempre più distanti dalle nostre popolazioni e dalle loro tradizioni etniche e culturali, mi è di rimpianto ricordare (ma mi aiuta a non sentirmi sola), la nota pastorale intitolata La città di san Petronio nel terzo millennio, che Giacomo Biffi nel 2000 – dunque ben 23 anni fa, con buon senso affronta il tema dell’invasione migratoria e dell’Islam.
Ricordare alcuni passaggi della pastorale del Cardinale, che allora riconobbe, in buona sostanza, che il fenomeno di una massiccia immigrazione ci aveva colti un po’ tutti di sorpresa, e vedere che lo Stato, che dà tuttora l’impressione di non aver ancora recuperato la capacità di gestire razionalmente la situazione, riconducendola entro le regole irrinunciabili e gli ambiti propri di un’ordinata convivenza civile, oggi mi è di aiuto.
Ma siamo ancora lì, nulla è cambiato. Le comunità cristiane, ammirevoli in molti casi nel prodigarsi ad alleviare disagi e pene, sono tuttora sprovviste di una visione non astratta, non settoriale, abbastanza concorde. Ancora oggi le generiche esaltazioni della solidarietà e del primato della carità evangelica – che in sé e in linea di principio sono legittime e anzi doverose – si dimostrano più bene intenzionate che utili quando non si confrontano davvero con la complessità del problema e la ruvidezza della realtà effettuale.
Deve essere ben chiaro che non è di per sé compito della Chiesa come tale risolvere ogni problema sociale che la storia di volta in volta ci presenta. Compito delle comunità cattoliche è invece l’annuncio del Vangelo. Tale missione può essere efficacemente coadiuvata, ma non può essere in alcun modo surrogata da qualsivoglia attività assistenziale. Essa suppone l’attitudine al dialogo sincero, aperto, rispettoso con tutti, ma non può mai risolversi nel solo dialogo. Può essere favorita dalla nostra conoscenza oggettiva delle posizioni altrui, ma si avvera soltanto quando noi riusciamo a portare all’esplicita conoscenza di Cristo quei nostri fratelli, che sventuratamente ancora non ne sono beneficiati.
Non bisogna poi dimenticare che l’azione evangelizzatrice è di sua natura universale e non tollera deliberate esclusioni di destinatari. E non è mai giustificata una rassegnata rinuncia a questo proposito, nemmeno quando, umanamente parlando, sembri poco prevedibile il conseguimento di qualche risultato positivo con tutti i nuovi arrivati (musulmani compresi).
Senza dubbio nostro dovere è anche l’esercizio della carità fraterna. Di fronte a un uomo in difficoltà – quale che sia la sua razza, la sua cultura, la sua religione, la legalità della sua presenza. Nel variegato panorama dell’immigrazione, le comunità cristiane non possono non valutare attentamente i singoli e i diversi gruppi, in modo da assumere poi realisticamente gli atteggiamenti più pertinenti e opportuni.
Agli immigrati cattolici – quale che sia la loro lingua e il colore della loro pelle – bisogna far sentire nella maniera più efficace che all’interno della Chiesa non ci sono “stranieri”: essi a pieno titolo entrano a far parte della nostra famiglia di credenti e vanno accolti con schietto spirito di fraternità e sorellanza. Quando sono presenti in numero rilevante e in aggregazioni omogenee consistenti, andranno sinceramente incoraggiati a conservare la loro tipica tradizione cattolica.
Non va però in nessun modo disatteso quanto è detto nella Nota Cei del 1993: “Le comunità cristiane, per evitare inutili fraintendimenti e confusioni pericolose, non devono mettere a disposizione, per incontri religiosi di fedi non cristiane, chiese, cappelle e locali riservati al culto cattolico, come pure ambienti destinati alle attività parrocchiali”.
Possiamo aggiungere un’annotazione, che riguarda da vicino soprattutto il comportamento auspicabile dello Stato e di tutte le varie autorità civili. I criteri per ammettere gli immigrati non possono essere solamente economici e previdenziali (che pure hanno il loro peso). Occorre che ci si preoccupi seriamente di salvare l’identità propria della nazione. L’Italia non è una landa deserta o semidisabitata, senza storia, senza tradizioni vive e vitali, senza un’inconfondibile fisionomia culturale e spirituale, da popolare indiscriminatamente, come se non ci fosse un patrimonio tipico di umanesimo e di civiltà che non deve andare perduto.
In vista di una pacifica e fruttuosa convivenza, se non di una possibile e auspicabile integrazione, le condizioni di partenza dei nuovi arrivati non sono ugualmente propizie. E le autorità civili non dovrebbero trascurare questo dato della questione. In ogni caso, occorre che chi intende risiedere stabilmente da noi sia facilitato e concretamente sollecitato a conoscere al meglio le tradizioni e l’identità della peculiare umanità della quale egli chiede di far parte.
Sotto questo profilo, il caso dei musulmani va trattato con una particolare attenzione. Essi hanno una forma di alimentazione diversa (e fin qui poco male), un diverso giorno festivo, un diritto di famiglia incompatibile col nostro, una concezione della donna lontanissima dalla nostra (fino ad ammettere e praticare la poligamia). Soprattutto hanno una visione rigorosamente integralista della vita pubblica, sicché la perfetta immedesimazione tra religione e politica fa parte della loro fede indubitabile e irrinunciabile, anche se di solito a proclamarla e farla valere aspettano prudentemente di essere diventati preponderanti.
Mentre spetta a noi evangelizzare, qui è lo Stato – ogni moderno Stato occidentale – a dover far bene i suoi conti. Da ultimo, sarà bene che nessuno ignori o dimentichi che il cattolicesimo – che non è più la “religione ufficiale dello Stato” – rimane nondimeno la “religione storica” della nazione italiana, oltre che la fonte precipua della sua identità e l’ispirazione determinante delle nostre più autentiche grandezze. Perciò è del tutto incongruo assimilarlo alle altre forme religiose o culturali, alle quali dovrà sì essere assicurata piena libertà di esistere e di operare, senza però che questo comporti o provochi un livellamento innaturale o addirittura un annichilimento dei più alti valori della nostra civiltà.
Va anche detto che è una singolare concezione della democrazia il far coincidere il rispetto delle minoranze con il non rispetto delle maggioranze, così che si arriva di fatto all’eliminazione di ciò che è acquisito e tradizionale in una comunità umana. Si attua una “intolleranza sostanziale”, per esempio, quando nelle scuole si aboliscono i segni e gli usi cattolici, cari alla stragrande maggioranza, per la presenza di alcuni alunni di altre religioni.
La nota pastorale è del settembre 2000. In seguito Biffi ebbe modo di risollevare l’argomento in varie occasioni. Ecco, non dimentichiamo.