Gli Usa non subivano un attacco aereo dai lontanissimi tempi della guerra di Corea. Ma è successo, ieri, quando un drone ha colpito la base logistica chiamata Tower 22 nella Giordania orientale che ospita 350 soldati americani e che ha un ruolo di appoggio al ben più importante avamposto di al Tanf, dentro la Siria, già colpito con due droni ad ottobre.
Nell’attacco rivendicato dalla Resistenza Islamica in Iraq, milizia filo-iraniana che lotta contro la presenza militare americana nel paese ma che si ricollega anche al più ampio fronte mobilitatosi dopo il 7 ottobre in supporto dei fratelli palestinesi e che comprende anche Houthi ed Hezbollah, sono morti tre militari Usa, mentre altri 32 sono rimasti feriti: per otto è stata necessaria l’evacuazione. Dei 160 attacchi messi a segno dopo il 7 ottobre contro obiettivi Usa dalle milizie filo iraniane attive in Iraq e Siria, questo è il primo con un esito letale, ma sono una settantina già i soldati americani che hanno riportato ferite più o meno gravi per lo più per traumi cerebrali.
IL PATTO USA-GIORDANIA
Un evento dunque infausto, quello di ieri, che avviene in un paese finora risparmiato dall’incendio, la Giordania, che con l’America ha un patto d’acciaio fatto di continua assistenza militare e che non a caso ieri negava che il suo territorio fosse stato coinvolto. Tower 22 e al Tanf si trovano a pochi chilometri di distanza in quella zona a cavallo tra Siria, Iraq e Giordania dove le forze USA danno ancora la caccia a ciò che resta dell’Isis in un territorio che rientra però in quella Mezzaluna sciita che Teheran vuole controllare con le sue leali milizie e con la presenza diretta dei pasdaran per assicurare da Beirut a Baghdad una continuità geografica alle sue ambizioni di dominio.
IL RUOLO DELL’IRAN
Le milizie sciite irachene che riconoscono alla Repubblica islamica il ruolo di guida non solo spirituale, condividendo la sua agenda antiamericana, rispondono o no agli ordini di Teheran? Sicuramente sono da sempre una spina nel fianco di un governo di Baghdad che deve fare i conti, dall’altro lato, anche con quel nemico interno jihadista per domare il quale è ancora necessaria la presenza di contingenti e addestratori americani. A breve si riunirà quella commissione militare congiunta chiamata a scogliere il nodo di una presenza usa forte di 2500 uomini e ritenuta indesiderata ma la cui uscita definitiva segnerebbe una vittoria strategica per l’Iran e per la sua visione di un Medio Oriente del tutto ostile all’Occidente, una catastrofe.
COSA FARANNO GLI STATI UNITI?
L’attacco di ieri si inserisce in questo sfondo, che spiega anche la difficoltà in cui si trova ora Washington: se reagisce massicciamente colpendo le milizie in territorio iracheno mette in difficoltà quello stesso esecutivo che ancora non aveva cacciato gli stessi americani come molti chiedono da anni. Stavolta però in quella base nella non lontana Giordania, in quella terra di nessuno dove i traffici di droga e armi si confondono alla lotta geopolitica in corso, sono morti tre soldati americani, e Biden deve rispondere.
Lo esortano a farlo tutti repubblicani che lo accusano anche di cronica debolezza. Chiedono addirittura di colpire finalmente dentro i confini iraniani, e sarebbe la prima volta da quella fallita missione del 1980 ordinata da Carter per liberare gli ostaggi dell’ambasciata di Teheran occupata in quella famosissima crisi che sanciva l’inizio della eterna contesa tra Washington e gli ayatollah.
Colpiremo – ha detto ieri il capo della Casa Bianca annunciando alla nazione la morte dei tre soldati – in un momento “of our choosing”. Questione forse di ore.