Per quanta tempestività e scaltrezza politica ci abbia messo la premier Giorgia Meloni per apprezzare pubblicamente il messaggio televisivo di Capodanno del presidente della Repubblica, nonostante il “dispiacere” attribuitole da Monica Guerzoni sul Corriere della Sera per “le ombre su sanità e detenuti”, l’intervento di Sergio Mattarella non ha potuto sottrarsi al gioco degli specchi. Che, già numerosi di loro al Quirinale sulle pareti alle quali sono appesi, si moltiplicano nelle interpretazioni mediatiche e politiche delle parole, dei gesti e, a volte, persino dei silenzi del Capo dello Stato. E Mattarella è moroteo, di famiglia, anche in questo, cioè nella gestione dei silenzi quando decide di ricorrervi. O dei tempi, come quelli che, per esempio, dilata al massimo quando si tratta di controfirmare e promulgare provvedimenti che non lo convincono. La firma allora arriva davvero in extremis.
Chi ha graffiato maggiormente con i titoli questa volta è stata probabilmente l’Unità del mio amico, ed ex direttore del Dubbio, Piero Sansonetti proponendo il messaggio di Mattarella come “sfida al governo”. Di fronte alla quale impallidisce “lo sprono” visto e proposto dal manifesto. Ma non ha scherzato neppure Domani, il giornale dell’irriducibile editore Carlo De Benedetti, indicando nel messaggio di Mattarella “il controcanto a Meloni”. Che pure assai prudentemente non solo ha apprezzato le parole di Mattarella ma ha anche rinviato al 9 gennaio, credo, la tradizionale conferenza stampa di fine anno, o inizio del nuovo, del presidente del Consiglio, rigorosamente al maschile neutro.
Mattarella, per come lo conosco, e credo di averlo capito in tanti anni di militanza politica, la sua, e di professione giornalistica, la mia, avrà fatto spallucce incurvandole ulteriormente. E magari si sarà pure divertito a immaginare le reazioni ai quattro messaggi augurali di San Silvestro che mancano all’epilogo del suo secondo mandato al Quirinale. Saranno alla fine quattordici: la durata più di un regno che di una Presidenza della Repubblica. Un regno peraltro neppure cercato, perché tutti ricordano le resistenze opposte da Mattarella alla rielezione: opposte sinceramente, non per finta o calcolo, come qualcuno pure riuscì a scrivere o insinuare quando maturò la sua conferma dopo inutili tentativi dei partiti di trovargli un successore. Come, del resto, si era già verificato due anni prima alla scadenza del primo mandato di Giorgio Napolitano, chiamato “Re Giorgio” per il suo dichiarato e orgoglioso interventismo nell’esercizio delle sue funzioni. Ho visto scrivere in questi giorni o ore anche di “Re Sergio”, ma non mi suona francamente bene come “Re Giorgio”.
Il guaio di questo che sarei tentato di chiamare il tradizionale, ormai, gioco degli specchi attorno al Capo dello Stato, e ai suoi interventi, è che qualcosa alla fine resta, nell’immaginario politico., delle rappresentazioni finalizzate al perseguimento degli obiettivi di chi si spinge troppo oltre nelle interpretazioni. E nello stesso racconto. E ciò a detrimento, a mio avviso, della Politica, con la maiuscola. E della dialettica che l’accompagna e la caratterizza e si traduce prevalentemente in lotta. Nella quale invece dovrebbe essere interesse di tutti di non coinvolgere una figura di garanzia come quella del Capo dello Stato.