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Pansa

Vi dico perché Pansa non fu mai nominato direttore di un quotidiano. Firmato: Damato

Pansa era troppo libero e imprevedibile perché un editore gli affidasse il timone di un quotidiano. I Graffi di Francesco Damato

Per la quantità degli importanti giornali ai quali ha collaborato nella sua lunga attività professionale, qualche volta andandosene e tornandovi, com’è accaduto al Corriere della Sera, che se lo era ripreso da poco destinando i suoi articoli ad una rubrica dal significativo titolo “Ritorno in Solferino”, poteva essere considerato un nomade Giampaolo Pansa: Giampa per gli amici, scomparso all’età di 84 anni.

Al di là dell’amicizia, quando si era creata una certa confidenza fra di noi, quasi coetanei, con soli tre anni di distanza l’uno dall’altro, non ho mai smesso di considerare Giampa un Maestro, con la maiuscola: come altri davvero più anziani e quindi con tanta maggiore esperienza. Penso, in particolare, a Indro Montanelli, Enzo Bettiza e l’ancor vivo Sergio Lepri.

Debbo dire che è proprio strana questa nostra editoria giornalistica, non a caso d’altronde affollata di editori, diciamo così, di risulta: spesso più improvvisati che professionali, o più impuri che puri, come si dice comunemente per dolersi di quanti usano i loro giornali più per coltivare meglio altri e prevalenti loro interessi, senza la trasparenza distintiva come quella della nostra testata, che per tutelarne e diffonderne il successo nelle edicole. È proprio strana questa nostra editoria, dicevo, se ad uno come Pansa non è mai capitato di diventare direttore di un quotidiano o di un settimanale, fra quelli per i quali ha lavorato o quelli che avrebbero potuto benissimo assumerlo solo per farsi da lui guidare.

Vi confesso che quando divenni direttore del Giorno, ancora di proprietà dell’Eni, il primo al quale pensai con un certo imbarazzo fu proprio lui, Giampa, che per quel quotidiano era passato lasciando tracce di tutto rispetto, come alla Stampa, al Corriere e poi a Repubblica, Panorama, all’Espresso, al Riformista, Libero, alla Verità. Gliene parlai e lui mi tolse subito dall’imbarazzo dicendo, credo poco sinceramente, solo per garbo nei miei riguardi, che non vi aveva mai aspirato perché gli piaceva troppo scrivere. E dirigendo bene un giornale, non ne avrebbe avuto più il tempo, o non gliene sarebbe rimasto abbastanza.

La verità è che Giampa — diciamolo con franchezza e onestà — era troppo libero, e troppo imprevedibile nella sua libertà, perché un editore, specie se impuro, con interessi cioè diversi e prevalenti rispetto al giornale posseduto, gliene affidasse il timone. Peccato davvero, perché sarebbe stato un direttore della stessa eccellenza dei suoi articoli, delle sue inchieste, delle sue polemiche, dei suoi tantissimi libri, delle sue immagini, con le quali sapeva dare corpo efficacissimo ai suoi giudizi.

Penso, per esempio, alla “balena bianca” alla quale volle e seppe  paragonare la malandata Democrazia Cristiana, che pure sembrava allora inaffondabile, non immaginando nessuno che la cosiddetta prima Repubblica potesse morire non tanto dei suoi mali quanto degli sconfinamenti della magistratura e dell’uso, o abuso, fattone da partiti, uomini e gruppi di potere emergenti, o rivelatisi incapaci di vincere le loro battaglie con i mezzi ordinari. Penso all’”Elefante rosso” con cui egli battezzò quella potente macchina organizzativa e politica del Pci; o al “parolaio rosso” col quale Pansa seppe e volle liquidare, agli albori, o quasi, della cosiddetta seconda Repubblica, l’allora leader della Rifondazione Comunista Fausto Bertinotti, che nel 1998 affondò il primo governo di Romano Prodi: quello dell’Ulivo, cui sarebbe subentrato senza un passaggio elettorale, pur logico col nuovo sistema maggioritario, un governo di Massimo D’Alema sostenuto da transfughi del centrodestra assemblati alquanto disinvoltamente da quel giocoliere che sapeva essere, quando ne aveva voglia, l’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga.

Ma penso anche al “Dalemoni” partorito dall’immaginazione di Pansa, sempre agli albori della cosiddetta seconda Repubblica, di fronte alle prove d’intesa, sopra e sotto traccia, fra D’Alema e Silvio Berlusconi. Che arrivarono ad un palmo dall’accordo vero e completo prima in una delle commissioni bicamerali succedutesi per la riforma costituzionale, e poi addirittura in un turno di elezioni presidenziali per l’avvicendamento al Quirinale alla scadenza del mandato del presidente in carica. A quest’ultimo proposito fu proprio all’ultimissimo momento che Berlusconi si tirò indietro, temendo più la sorpresa dei suoi ancòra tanti elettori che la delusione dell’amico e consigliere Giuliano Ferrara. Che sull’intesa aveva un po’ scommesso, consapevole che da soli né il centrodestra né il centrosinistra, nonostante le speranze accese dal carattere prevalentemente maggioritario del nuovo sistema elettorale, ce l’avrebbero fatta a governare l’Italia tenendosi stretta la famosa Costituzione “più bella del mondo”, di cui parlava la sinistra ogni volta che si cercava seriamente di cambiarla.

Negli ultimi tempi, prima di riapprodare al Corriere, e rompendo con i giornali di sostanziale centrodestra che l’ospitavano da quando la sinistra lo aveva  praticamente espulso, trattandolo come un traditore per avere voluto raccontare e ricostruire con onestà la Resistenza, nel rispetto dei “vinti” e non solo dei vincitori, spesso sanguinari al di là delle esigenze di una pur drammatica guerra civile; negli ultimi tempi, dicevo, Pansa era diventato molto pessimista sulle sorti del Paese. Egli era sopraffatto dall’incompetenza dei grillini, dai limiti della sinistra e dalla paura del “seduttore autoritario” Matteo Salvini. Una volta si lasciò scappare persino un mezzo auspicio che venisse fuori un generale a rimettere ordine, come capitò di pensare a Ugo La Malfa nel 1978 reagendo al sequestro di Aldo Moro con la richiesta ad altissima voce, nel famoso “transatlantico” di Montecitorio, della pena di morte. Che solo un regime militare avrebbe potuto e potrebbe ripristinare.

Autore frequente di scoop, a volte generati solo dalla sua capacità di previsione e di lettura del dibattito politico, che lo incuriosiva anche negli aspetti fisici, come dimostrava scrutando col binocolo dalle postazioni della stampa palchi e tribune dei congressi di partito, nell’epoca in cui erano ancora di moda questi riti della democrazia, credo che il più clamoroso resti quello del 1976.

A crisi ancora aperta dopo le elezioni anticipate provocate dai socialisti di Francesco De Martino, mentre democristiani e comunisti trattavano la formazione di una maggioranza emergenziale di cosiddetta solidarietà nazionale, destinata a realizzarsi attorno ad un  governo monocolore dc presieduto da Giulio Andreotti, l’allora inviato del Corriere della Sera Pansa seppe rompere letteralmente la corazza politica del segretario del Pci Enrico Berlinguer. Che l’indossava fuori e dentro il Bottegone, come si chiamava l’enorme palazzo di via delle Botteghe Oscure che era la sede del maggiore partito comunista d’Occidente.

Alla presenza del tanto vigile quanto insofferente Tonino Tatò, il portavoce e molto altro del segretario del Pci, Pansa seppe strappare a Berlinguer un annuncio così clamoroso e  imbarazzante per i militanti da essere ignorato, cioè censurato, il giorno dopo dal giornale ufficiale del partito. In particolare, sapendo bene quanto forti fossero i timori fuori e dentro l’Italia di una maggioranza condizionata dai comunisti, e dai loro rapporti già difficili ma pur sempre forti con l’Unione Sovietica, Berlinguer disse di considerare l’autonomia del suo partito più al sicuro sotto l’ombrello della Nato.

Poi, in verità,  dopo il sequestro e la morte di Aldo Moro per mano delle brigate rosse, anche per evitare il rafforzamento di quell’ombrello col riarmo missilistico dell’Alleanza Atlantica di fronte agli SS 20 sovietici schierati nell’est europeo contro i paesi occidentali, lo stesso Berlinguer si sarebbe tirato indietro dalla maggioranza tornando all’opposizione, all’inizio del 1979. Ma quell’annuncio strappatogli da Pansa era detonato come una bomba sullo scenario politico italiano e internazionale. Il segretario del Pci aveva scavato con quelle parole un solco destinato a produrre i suoi frutti anche dopo la ritirata del 1979. I rapporti del Pci con Mosca non sarebbero più tornati gli stessi. E la stessa Unione Sovietica sarebbe finita entro una ventina d’anni.

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