A un anno dall’attacco terroristico di Hamas del 7 Ottobre 2023, quali sono state le conseguenze dell’attacco e del conflitto esploso nel quadro geopolitico del Medio Oriente odierno?
Sono molteplici e profonde. In realtà, il Medio Oriente era entrato in una fase di riassetto già nel 2020, con la firma dei quattro accordi di Abramo mediati dal presidente Trump. Il cosiddetto “asse della resistenza”, che ha il suo perno nell’Iran, si è messo in movimento per neutralizzarli e rendere impossibile una riorganizzazione della geopolitica regionale fondata sul mutuo riconoscimento di Israele e dei paesi arabi ostili all’Islam Politico. Il tentativo ha avuto temporaneamente successo, perché non si è ancora riusciti a perfezionare la “madre di tutte le intese”, quella tra lo Stato ebraico e l’Arabia Saudita.
Il processo presumibilmente riprenderà, ma non prima che Israele abbia degradato sensibilmente le capacità dei suoi nemici. Hamas è in difficoltà, mentre l’Hezbollah è stato privato dei propri vertici politico-militari e rischia il collasso. Resta in piedi la Repubblica Islamica d’Iran, che ha recentemente scagliato quasi duecento missili balistici contro Israele. Gerusalemme risponderà sicuramente, seppure non sia ancora dato sapere come, poiché in ballo c’è anche la sorte di quegli iraniani che auspicano un netto cambio di direzione alla testa del proprio paese. È a questa parte della Persia che si è recentemente rivolto con un proprio videomessaggio il premier Netanyahu.
Alla luce delle ultime notizie, quale pensa possa essere l’obiettivo strategico che intende perseguire Israele nel prossimo futuro?
Israele deve innanzitutto rassicurare i propri cittadini, per evitare che una parte più o meno grande di loro lasci il paese. La promessa di una vita sicura e serena fatta a tutti gli ebrei che vanno a vivere in Terra Santa deve essere rinnovata e garantita. È anche per questo motivo che abbiamo assistito ad una risposta tanto dura nei confronti di Hamas e dell’Hezbollah. Chi attacca Israele deve esser certo che pagherà un prezzo alto per averlo fatto. E i cittadini israeliani hanno bisogno di verificare che le basi della potenza del loro paese non siano state intaccate.
Il nodo critico ora è ovviamente l’Iran. Nei suoi confronti esiste la necessità di ristabilire una forma credibile di dissuasione. Ma è forte anche la tentazione di agevolare dall’esterno un cambio di regime, al quale certamente qualcuno sta lavorando con tutta la prudenza del caso. Ecco perché il confezionamento della reazione israeliana agli ayatollah sta comportando una lunga fase preparatoria: si tratta di raggiungere la proverbiale quadratura del cerchio. Il regime deve essere indebolito, ma non gli deve esser servita su un piatto d’argento la possibilità di giocare la carta nazionalista per rilegittimarsi. Ecco perché si guarda ai terminali petroliferi, che oltretutto servono più ai cinesi che all’Occidente. Gli impianti nucleari porrebbero invece alcuni problemi, anche in termini di possibili contaminazioni di territori attigui più o meno ampi. Naturalmente le basi militari sono ulteriori obiettivi: per certi versi, quelli più scontati.
Qual è stato e quale potrebbe essere il ruolo dell’Iran, anche alla luce delle operazioni odierne in Libano?
In questa vicenda, il ruolo effettivo dell’Iran conta meno di quello percepito. Se a Gerusalemme si è convinti che tutto ciò che è successo in Medio Oriente dal 7 ottobre 2023 in avanti è opera diretta o indiretta del regime che comanda a Teheran, poco importa che sia stato o meno così. Se ne impone in ogni caso l’indebolimento. La narrazione adottata dalle autorità israeliane in occasione del primo anniversario del pogrom va in questa direzione.
Quali ripercussioni potrebbero avere sul conflitto e sulla politica israeliana i risultati delle elezioni americane?
Il Medio Oriente ha già influito in passato sulle elezioni presidenziali americane. La crisi degli ostaggi, ad esempio, contribuì notevolmente a portare nel 1980 Ronald Reagan alla Casa Bianca. Il protrarsi degli scontri attualmente in corso potrebbe per ragioni simili favorire ora Donald Trump, che accusa di debolezza ed irresolutezza l’amministrazione Biden. Peraltro, ed è paradossale, se gli Stati Uniti partecipassero in modo significativo ad azioni israeliane contro l’Iran, Trump potrebbe trarne egualmente beneficio, rilanciando in modo strumentale la carta del disimpegno e dell’anti-bellicismo che tanto piace a settori sempre più larghi dell’opinione pubblica americana.
Morale: qualunque cosa si faccia, il tycoon potrebbe avvantaggiarsene. Infine, se venissero colpiti i terminal petroliferi iraniani, il rialzo immediato dei prezzi del greggio avrebbe un impatto certamente inflazionistico negli Stati Uniti, indebolendo la Harris, che è il vicepresidente in carica. Tra i due candidati il distacco sembra minimo. Potrebbero bastare spostamenti anche molto contenuti di voti a cambiare l’esito dell’elezione, apparentemente in bilico.