I liberaldemocratici di Christian Lindner tracciano linee rosse. I Verdi di Robert Habeck e Annalena Baerbock immaginano sfondamenti. E il cancelliere Olaf Scholz prova a mediare e a guidare il vascello sempre più instabile del governo semaforo fuori dai marosi causati dalla Corte costituzionale.
Una sentenza come una tempesta, quella della Corte di Karlsruhe pronunciata qualche settimana fa, che ha tolto i tesoretti dai forzieri speciali creati dal governo nel tentativo di tenere dentro tutte le sue contraddizioni: quelle dei liberali che non volevano sforamenti ufficiali al freno del debito, quelle dei Verdi che dovevano finanziare i costi della transizione energetica e quelle dei socialdemocratici che volevano alimentare le spese sociali per parare l’inflazione.
LA CORTE DI KARLSRUHE BLOCCA IL METODO SCHOLZ
La sentenza di Karlsruhe ha reso questa magia finanziaria molto più difficile: ad esempio, la Corte ha dichiarato incostituzionale il trasferimento di 60 miliardi di euro di debito non speso destinato a combattere gli effetti della pandemia alla KTF, il fondo per il clima e la trasformazione, e ha detto al governo che non poteva trattenere il debito contratto nell’anno X per spenderlo nell’anno Y. Gran parte del “metodo Scholz” si basava esattamente su questo.
Alla fine la corda si è spezzata, o meglio l’ha tranciata di netto la Corte. E Scholz ha messo in campo l’unica arte nella quale sembra diventato un campione: quella del bravo incassatore. Presa la sberla dagli alti giudici, il cancelliere è finito nel mirino dei giornali. Impietoso è stato lo Spiegel, un tempo bibbia della socialdemocrazia, che gli ha dedicato la copertina della scorsa settimana con il titolo “La caduta di un saputello” (Absturz eines Besserwissers). Poi Scholz ha mostrato il sorriso dei tempi migliori alla sfuriata che gli ha riservato in diretta tv il leader dell’opposizione cristiano-democratica Friedrich Merz, in uno scontro parlamentare tra i più accesi di questa legislatura.
Merz, che ha un caratteraccio ma di economia ci capisce, lo ha trattato da incompetente (“un idraulico del potere”), lui e tutti i suoi ministri. E li ha messi alla berlina in un discorso di fuoco, indicandoli a dito uno dopo l’altro nei banchi ministeriali in cui erano seduti, e declamando con compiaciuto sarcasmo al virtuale pubblico degli elettori che quelle personalità modeste rappresentavano per davvero il governo della quarta economia mondiale.
Scholz ha sorriso, ma ora il suo apparentemente imperturbabile carattere anseatico deve misurarsi con più di una quadratura del cerchio, a cominciare dai bilanci 2023 e 2024 che vanno rimodulati dopo la scure della Corte costituzionale.
IL FRENO AL DEBITO
E tutto sembra ora incentrarsi attorno al freno al debito, la Schuldenbremse, la norma secondo cui il governo deve limitare i nuovi prestiti allo 0,35% del Pil, inserita in Costituzione nel 2009 alla fine del primo governo di Grosse Koalition guidato da Angela Merkel. Gioie e dolori di questa misura: il freno al debito ha fatto scendere il debito pubblico tedesco dall’82,5% del Pil nel 2010 a poco sotto il 60% nel 2019, prima che le crisi della pandemia, della guerra in Ucraina e dell’energia ne richiedessero la sospensione. Ma ha anche significato che durante gli anni di vacche grasse, quando cioè i prestiti per i tedeschi sarebbero stati davvero molto convenienti, la Germania non ha fatto gli investimenti pubblici urgentemente necessari: nelle sue fatiscenti forze armate, mancando così regolarmente l’obiettivo concordato con la Nato del 2% di spesa sul Pil e ritrovandosi oggi con una sicurezza imbarazzante, ma anche nelle infrastrutture, nella scuola, nella digitalizzazione e in molto altro ancora.
Tanto che anche un quotidiano conservatore come la Frankfurter Allgemeine Zeitung oggi sottolinea in un suo editoriale come accanto alla verità che il freno ai debiti salvi le generazioni future da impegni finanziari troppo gravosi c’è anche quella che gli consegna un paese arretrato, privo delle modernizzazioni necessarie per essere al passo con la competizione internazionale. Il disastro di queste settimane della Deutsche Bahn, la ferrovia tedesca, è solo uno degli esempi delle conseguenze di mancati finanziamenti.
LE TRATTATIVE
Intanto i liberali, che hanno dovuto ingoiare il rospo di rinunciare al ritorno del freno per il 2023, hanno ora segnato il suo ritorno nel 2024 come la linea rossa invalicabile per restare nel governo. Quetsa e l’altra promessa fatta in campagna elettorale, di non aumentare le tasse ai cittadini. L’Fdp, anzi, stava lavorando a un alleggerimento. E comunque, ha detto Lindner in un’intervista alla Faz, nessun euro per i nuovi bilanci dovtrà arrivare dalle tasche dei contribuenti.
Le trattative sono dunque complesse, tanto che Habeck ha dovuto annullare il suo viaggio a Dubai per l’intervento alla Conferenza sul clima. Il ministro verde si è detto ottimista sul compromesso possibile, ma in questi giorni è difficile distinguere la propaganda dalla verità. Appena qualche settimana fa, Habeck aveva lanciato una proposta da sviluppare per la prossima legislatura che prevedeva di rinunciare al freno al debito. Ora questa discussione è diventata tremendamente attuale. A suo supporto è arrivato un rapporto del comitato scientifico del ministero dell’Economia, i cui punti essenziali sono stati anticipati dall’Handelsblatt, nel quale auspica in un ampio adeguamento del freno all’indebitamento.
Il comitato indipendente sostiene che il freno all’indebitamento, nella sua forma attuale, contenga “falsi incentivi”. Non ne chiede l’abolizione, ma una consistente riforma. Con la creazione di una sorta di Golden Rule Plus: lo Stato può indebitarsi per investimenti non soggetti a freni.
Con la creazione di una “Società di promozione degli investimenti”, lo Stato si impegna a mettere ogni anno a sua disposizione una somma fissa da utilizzare esclusivamente per gli investimenti.
Il comitato consultivo ha anche criticato l’attuale politica finanziaria e la pratica dei fondi speciali: una pratica “insostenibile”, un tentativo di “mascherare” le reali esigenze finanziarie.