Settimana decisiva per le sorti del governo della Germania, sballottato da un documento programmatico di politica economica tirato fuori dal ministro delle Finanze Christian Lindner, leader dell’Fdp, che sembrerebbe scritto apposta per rievocare i fantasmi del 1982, quando l’allora presidente dei liberali Hans-Dietrich Genscher diede il benservito al cancelliere socialdemocratico Helmut Schmidt mettendo in moto il meccanismo della sfiducia costruttiva che porto alla cancelleria il cristiano-democratico Helmut Kohl.
Nel mirino di Lindner, oltre le solite richieste di semplificazione e sburocratizzazione buone per ogni documento dal sapore liberale, soprattutto le politiche verdi di Robert Habeck, gli obiettivi troppo ambiziosi di tutela del clima e transizione energetica (emissioni, fuoriuscita dal carbone, sostituzione delle caldaie) per i quali l’Fdp alla ricerca del consenso perduto chiede di allungare i tempi.
Di crisi di governo si è parlato insistentemente nel fine settimana, poi la situazione si è in parte rasserenata con la convocazione domenica sera alla cancelleria di Lindner e il colloquio a quattr’occhi con Olaf Scholz. L’esponente liberale ha assicurato di non voler far cadere il governo, il cancelliere ha deciso di prendere in mano la situazione e di fissare una serie di incontri con i vari responsabili della maggioranza per provare a ritrovare un filo comune.
Su tutto questo agitarsi aleggia l’appuntamento di martedì notte, quando gli americani sceglieranno il nuovo presidente. La Germania teme il ritorno di Donald Trump, cui imputa nel corso della sua prima presidenza le guerre commerciali e la fine della globalizzazione, alla cui ombra l’economia tedesca era cresciuta come solo ai tempi del boom post-bellico.
Tuttavia, dopo l’incidente diplomatico che aveva coinvolto l’infantile staff della ministra degli Esteri Annalena Baerbock (una risposta ufficiale a una delle tante boutade elettorali di Trump che coinvolgevano la Germania a cui era stata aggiunta una postilla sui gatti e sui cani di Springfield), il governo di Berlino ha iniziato a muovere i suoi contatti per agganciare gli ambienti repubblicani e l’entourage di Trump e cominciare a prendere le misure. A Berlino si tifa per Kamala Harris, ma questa volta i tedeschi vorrebbero non farsi trovare impreparati qualora l’esito del voto dovesse pendere per l’ex presidente.
Dietro le quinte fervono le riunioni con gli esperti di Stati Uniti dei pensatoi di politica estera tedesca, ministri e uomini della cancelleria si incontrano regolarmente per condividere le informazioni su come le elezioni potrebbero rimodellare le relazioni transatlantiche: Berlino che teme una trasformazione della politica di sicurezza, commerciale e climatica degli Stati Uniti con drastiche ripercussioni sull’Europa. “I preparativi sono molto più elaborati e dettagliati rispetto a otto anni fa”, ha detto alla stampa Nils Schmid, uno degli esperti di politica estera dell’Spd. “Abbiamo analisi molto precise per entrambe le parti sulle potenziali politiche in certi settori e su come possiamo reagire”, ha confermato Michael Link, coordinatore transatlantico presso il ministero degli Esteri.
Un ruolo importante è stato svolto dai deputati dell’opposizione cristiano-democratica, il cui partito è tradizionalmente vicino a quello dei Repubblicani. I delegati tedeschi, capeggiati dall’ex ministro della Sanità Jens Spahn, uno degli esponenti più in vista nella Cdu accanto a Friedrich Merz, hanno avuto una presenza insolitamente numerosa alla Convention nazionale repubblicana e i funzionari hanno incontrato senatori, governatori ed esperti di politica estera repubblicani per evidenziare il ruolo della Germania come partner commerciale chiave e sottolineare che il Paese ha raggiunto l’obiettivo di spesa della Nato.
Ci saranno minori contrasti su alcuni temi, come appunto quello del maggiore impegno finanziario per la Nato o sulle spese generali di riarmo, ma Berlino teme sempre che Trump possa riesumare i piani di trasferimento in Polonia delle truppe di stanza in Germania, anche se in una visione di allentamento della tensione con Putin (che Trump promette e che Berlino forse sotto sotto non vede di cattivo occhio) una mossa del genere sarebbe meno probabile.
Se il mondo politico ha attivato la sua rete diplomatica per attutire un’eventuale seconda presidenza di Trump, quello economico appare più preoccupato, nonostante politiche protezionistiche siano state l’asse portante della presidenza di Joe Biden e siano nel programma anche della sua vice.
Un recente sondaggio dell’Istituto economico Ifo, rivela infatti che il 44% delle imprese tedesche prevede un impatto negativo sulla propria attività se Trump sarà rieletto presidente. Delle duemila aziende interpellate dal think tank bavarese, solo il 5% si attende sviluppi positivi, mentre la maggioranza (il 51%) pensa che non vi sarà alcuna differenza, dato che anche i programmi di Harris ruotano attorno all’America First, seppur declinato in toni più morbidi.
Ma nel mazzo delle imprese interrogate dall’Ifo, sono proprio quelle con legami economici negli Usa a essere più pessimiste (il 48%). “Anche molte aziende che non hanno rapporti diretti di esportazione con gli Stati Uniti temono effetti negativi, in quanto potrebbero comunque essere colpite indirettamente, ad esempio come fornitori”, ha detto il ricercatore dell’Ifo Andreas Baur.
La preoccupazione non sfocia però in panico: sempre secondo il sondaggio, se Trump dovesse vincere le elezioni la stragrande maggioranza delle aziende tedesche (83%) non prevede alcuna misura di adeguamento e solo il 4% ha dichiarato di prendere in considerazione la possibilità di delocalizzare la produzione fuori dagli Stati Uniti o di adattare le proprie catene di fornitura.
I timori più grandi sono legati alla minaccia dei dazi promessi da Trump in campagna elettorale. “I soli dazi annunciati ridurrebbero le esportazioni tedesche negli Stati Uniti di quasi il 15%”, ha detto ancora Baur, facendo riferimento a uno studio Ifo precedente, secondo il quale i paesi più colpiti sarebbero proprio i vicini degli Usa, Canada e Messico, mentre la Cina, che sarebbe il vero obiettivo, ne uscirebbe quasi illesa avendo la capacità di riorientare i propri affari.