La Cina non è più così vicina a Berlino. Due dati economici, forniti dall’Ufficio federale di statistica, sottolineano il pur lento ma reale cambio di rotta tedesco nelle politiche commerciali verso Pechino. Dato numero uno: nel primo trimestre del 2024 gli Stati Uniti avevano superato la Repubblica popolare cinese nel volume degli scambi commerciali. Sommando esportazioni e importazioni, quello con gli Usa ammontava a ben 63 miliardi di euro, quello con la Cina si era fermato a poco meno di 60 miliardi di euro: negli otto anni precedenti il primo posto era stato ininterrottamente occupato da Pechino. Dato numero due: nella prima metà dell’anno gli esportatori tedeschi hanno realizzato più vendite con la Polonia che con la Cina. Le esportazioni verso Varsavia sono aumentate del 4,6% a 48,4 miliardi di euro, quelle verso la Cina sono diminuite del 2,7%.
È un’ulteriore Zeitenwende (svolta epocale) quella operata dalla Germania, all’interno di un quadro di cambiamenti pagati economicamente anche a caro prezzo. Il mondo è cambiato e la globalizzazione che ha caratterizzato il periodo aureo dell’egemonia americana, nella quale la Germania aveva trovato il terreno ideale per la sua espansione commerciale, è finita sotto i colpi ripetuti delle guerre commerciali, della pandemia e infine delle guerre, a cominciare da quella russo-ucraina. In particolare il conflitto a poche centinaia di chilometri da casa ha preso in contropiede la Germania, che con lo strappo verso Mosca ha perduto a un tempo l’energia a basso costo e un mercato di investimenti e sbocco di merci. L’esperienza con la Russia è stata di monito per il governo di Berlino, considerato dagli analisti di geopolitica il vero paese perdente nella guerra in corso. Una situazione simile non deve ripetersi con la Cina, anche perché dagli Stati Uniti sono arrivati segnali chiari e la Germania non può permettersi terze vie in caso di scontro.
De-risking è il nuovo mantra nel rapporto con Pechino. È portato avanti dal governo (con cautela da parte dell’Spd e di Olaf Scholz e dei liberali, con più energia da parte dei Verdi), è sostenuto dall’opposizione cristiano-democratica, che si prepara a guidare il prossimo esecutivo e quindi la futura politica estera, trova resistenze da una parte degli industriali, i quali però fanno buon viso a cattivo gioco perché la lezione russa l’hanno in fondo imparata anche loro. E il de-risking si muove seppur a velocità differente lungo tre direttrici: quella del commercio, della difesa e (con più ambiguità) della sicurezza interna.
La perdita di posizioni della Cina nelle classifiche del commercio estero tedesco sono il primo risultato delle politiche di decoupling suggerite dal governo di Berlino alle proprie imprese: un generale riorientamento degli sbocchi di mercato, la riduzione di investimenti e interessi in Cina a favore di altre nazioni o di altre aree geografiche meno rischiose, anche nella stessa Asia. Il Vietnam, ad esempio, è una delle nuove terre promesse per chi vuole smobilitare la propria presenza cinese. La Germania è il secondo partner commerciale del tra gli Stati dell’Ue dopo i Paesi Bassi, con scambi per un valore di 7,8 miliardi di dollari nel 2021. Molto meno però di Stati Uniti, Cina, Giappone e Corea del Sud. Circa 500 aziende tedesche sono già operative, 80 di esse hanno impiantato stabilimenti produttivi. Tra queste vi sono nomi come Bosch, l’azienda energetica Messer e diverse imprese più piccole coinvolte nella catena di fornitura automobilistica globale.
Un altro indicatore arriva dall’industria tessile, dove pure sta avvenendo una piccola rivoluzione silenziosa. Le etichette made in Egypt, Tunisia, Marocco vanno via via sostituendo quelle made in Bangladesh, Vietnam e soprattutto China. Nel settore tessile tedesco il Nord Africa sta scalzando l’Asia e gli analisti ritengono che tale tendenza sia destinata a consolidarsi, modificando gli equilibri che hanno governato finora tale commercio.
Ma in generale lo sganciamento dalla Cina è comunque lento. “Non è possibile sostituire il più grande mercato del mondo con un altro. Se avessimo trovato delle alternative credibili, saremmo già tutti lì”, aveva detto all’Handelsblatt Stefan Hartung, portavoce del consiglio di amministrazione di Bosch, a margine di uno dei tanti convegni di imprenditori tedeschi nell’area asiatica. Le resistenze vengono soprattutto dai comparti più in crisi dell’impresa tedesca, quello della chimica e dell’automobile. Se da un lato il colosso chimico Basf ha accelerato nei mesi scorsi il processo di vendita delle proprie azioni nei controversi stabilimenti in joint venture con la cinese Markor Meiou Chemical nella regione autonoma dello Xinjiang, dopo i sospetti di lavoro forzato e oppressione della minoranza musulmana uigura, dall’altro i suoi manager restano intenzionati a potenziare gli investimenti in Cina. Anche come reazione alla mancanza di riforme in patria, alla eccessiva burocrazia, alla carenza di manodopera e agli alti costi dell’energia. Di recente il direttore finanziario Dirk Elvermann ha confermato la prospettiva che entro il 2030 circa l’80% della crescita globale della produzione chimica di Basf sarà generata in Cina.
Anche l’industria dell’auto, alle prese con una complessa fase di transizione verso l’elettromobilità, frena sulla ritirata cinese, perché seppure in calo resta il mercato estero più importante e i timori di ritorsioni da parte del governo di Pechino sono forti. Non si spiega altrimenti l’opposizione esercitata ai dazi imposti dalla Commissione europea. Inoltre le case automobilistiche temono di perdere il contatto con il mercato più innovativo e dinamico sui motori elettrici, settore di enorme concorrenza dove i cinesi sono in vantaggio.
Sul piano della difesa sarà invece interessante seguire le future mosse di Berlino. Nelle prossime settimane il governo dovrà decidere se due navi da guerra tedesche attualmente in missione nell’Indo-Pacifico debbano attraversare lo Stretto di Taiwan. Finora la Germania si è tenuta alla larga dallo stretto, a differenza di altre marine occidentali: un cambio di rotta sarebbe un segnale di sfida verso Pechino.
Sul versante militare, l’esercito tedesco ha invece intensificato la collaborazione con quello giapponese, dopo che un viaggio di Scholz a Tokyo ha rinsaldato i rapporti fra i due paesi anche in chiave di contrasto della crescente presenza russo-cinese nell’area.
Infine il capitolo della sicurezza interna, dove le decisioni del governo tedesco appaiono più ondivaghe. Perché se è vero che sono aumentati i casi di fermi o arresti di presunte spie cinesi che negli anni precedenti avevano terreno libero, è altrettanto vero che sulla questione dei componenti cinesi nella rete mobile 5G tedesca considerati un rischio per la sicurezza c’è stato un ammorbidimento a favore delle richieste degli operatori di rete, Deutsche Telekom, Vodafone e Telefónica. L’accordo di governo prevede che dal 2026 nella cosiddetta rete centrale non potranno essere più utilizzati componenti di produttori considerati critici, come le aziende cinesi Huawei o ZTE e che dal 2029 le componenti cinesi dovrebbero essere rimosse anche dal sistema di gestione della cosiddetta rete di accesso e trasporto. La proposta originaria del ministero dell’Interno, sostenuta anche da quelli degli Esteri e dell’Economia, prevedeva tempi notevolmente più brevi. E infatti il giudizio del deputato verde Konstantin von Notz, presidente della Commissione per il controllo dell’intelligence del Bundestag, è stato negativo: “Purtroppo non è un buon compromesso”, ha commentato, “il fatto che le aziende debbano sviluppare i componenti corrispondenti dopo anni di ritardo rappresenta un rischio significativo. Anteporre le considerazioni di politica economica alla politica di sicurezza rasenta la negligenza”.
A bilanciare la delusione sul fronte dei componenti cinesi nella rete mobile tedesca c’è invece la recente posa della prima pietra del nuovo stabilimento di produzione di microchip a Dresda, in joint venture con la taiwanese TSMC. Il segnale di un più stretto legame con Taiwan è una novità rispetto alle prudenze che hanno caratterizzato i rapporti sino-tedeschi all’epoca di Angela Merkel. E se Olaf Scholz in un suo precedente intervento ha rimarcato che sarebbe sbagliato interrompere tutti i legami economici con la Cina, ma è necessario minimizzare i rischi e assicurarsi di non diventare troppo dipendenti dalle materie prime o da componenti informatici sensibili, il futuro potrebbe seguire la linea più dura (almeno nei toni) che la Cdu ha descritto in un suo recente position paper: “L’ascesa della Cina comunista è la sfida centrale ed epocale del Ventunesimo secolo per tutti gli Stati che cercano di preservare, rafforzare e sostenere l’ordine internazionale basato sulle regole”. Così Pechino non sarebbe più tanto un, ma sempre più un concorrente economico e un rivale sistemico.