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Quale sarà il futuro dei cristiani in Libano?

Nel Medio Oriente a pezzi sta crollando anche il modello libanese di uno Stato multiconfessionale che tiene insieme sunniti, sciiti e cristiani. Proprio i cristiani sembrano rassegnati al ghetto. L'approfondimento di Riccardo Cristiano tratto dalla newsletter Appunti di Stefano Feltri.

Cosa vuol dire essere un cristiano libanese oggi? Una risposta, che interpreta una precisa visione presente tra i cristiani, quella cosmopolita, l’ha data l’ex ministro Tareq Mitri, accademico di chiara fama, mai vicino a Hezbollah, che in un’intervista al principale giornale francofono nazionale ha detto: “La priorità oggi è dire che la guerra è a tutti in Libano”. Il ghetto, è il senso sottinteso, non salva nessuno.

Poi ha aggiunto una considerazione decisiva: “La finestra diplomatica è piccola e l’intransigenza e il trionfalismo israeliano dureranno. Ma esiste e, affinché si apra un po’ di più, c’è un lavoro che i libanesi devono fare. Sul piano interno, è il momento di mostrare solidarietà e fratellanza, a prescindere dalle nostre differenze politiche”.

Poco più esteso delle Marche, il Libano non è soltanto uno Stato, è uno Stato importante politicamente e culturalmente, perché incarna – o ha incarnato- l’unico Stato sovrano multiconfessionale.

Ma ogni guerra riporta il Paese a un bivio: la sua identità è l’identità delle montagne tribali, o quella di Beirut, araba, europeizzata, moderna, mediterranea? Per scegliere la seconda strada si dovrebbe unire contro la guerra, che coinvolge tutti.

Ma è molto difficile ridefinire sé stessi mentre si è in guerra, eppure una frase di papa Francesco ai tempi del Covid calza a pennello ai libanesi: da una crisi si esce migliori o peggiori. I cristiani libanesi sembrano tentati dalla prima strada, cioè dal suicidio.

Per capire in che  modo occorre almeno presentare la loro storia, divisa tra tribalismo montano e cosmopolitismo urbano.

La deriva

Il padre del tribalismo montano fu un gesuita fiammingo, padre Henri Lammens, che elaborò una teoria a cui molti ancora prestano orecchio tanto è suggestiva. Nel deserto di quella regione improvvisa arriva una zona montuosa, dove i cristiani perseguitati cercano riparo: un segno divino che definisce uno Stato.

Fu la base del colonialismo francese, orientato a costruire in Libano uno stato per i maroniti, i cattolici locali seguaci di San Marone, perseguitati secondo Lammens dai musulmani.

Molti però hanno creduto a un’altra storia: su quelle montagne c’erano molti, non solo i cristiani, anche musulmani di diversi riti, non perché perseguitati, ma perché attratti dall’acqua, altrove scarsa. E poi i maroniti erano stati perseguitati per motivi dottrinali dai bizantini, cristiani anch’essi, non dai musulmani.

Ma alla ricerca di un nemico esterno  alcuni cristiani seguirono Lammens, e i francesi ai tempi del mandato coloniale, nel 1920.

I più però, quelli che vivevano a Beirut, divenuta una metropoli grazie alla fuga di tanti dalle guerre tribali della montagna, scelsero l’altra strada, si accordarono con i musulmani con un patto nazionale e diedero vita al Libano multiconfessionale.

Un modello controtendenza in tutta la regione, dove lo Stato è confessionale e gli altri sono minoranze.

In Libano no: l’unico motivo per cui il Libano può dire di essere uscito migliore e non peggiore dalla sua successiva e devastante guerra civile (1975-1990) è stato il varo di un parlamento paritario: 50 per cento cristiani e 50 per cento musulmani: non il proporzionalismo confessionale, come in Egitto, ma un partenariato tra uguali, al di là dei numeri.

Uccidendo l’uomo che ha ricostruito Beirut, Rafiq Hariri, Hezbollah ha inteso sabotare questa visione. I cristiani che in quel frangente drammatico si sono alleati con loro oltre al calcolo avevano in comune con loro una visione?

La visione di questi cristiani sembrava suonare così: nel Medio Oriente è impossibile convivere con la maggioranza, i musulmani sunniti, perché la loro religione è assolutista, irriguardosa, meglio allearsi con le altre minoranze, in questo caso i musulmani sciiti di Hezbollah.

Questo ha favorito la deriva verso una cantonalizzazione strisciante del Paese: gli sciiti nel loro sud, i cristiani nel loro Monte Libano, i sunniti nella loro Tripoli e nel sud. In mezzo, stremata, resisteva Beirut.

Di cosa ha bisogno oggi il Libano? Di una voce libanese o di tre voci, una cristiana, una sunnita, una sciita? E’ questo il nodo attraverso il quale si decide se si uscirà migliori o peggiori da questa drammatica guerra. Innanzitutto occorre riconoscerla insieme come guerra al Libano e quindi impegnarsi per fermarla.

Le successive scelte politiche, abbastanza chiare già oggi, vanno prese da chi rappresenta il Paese più che da capi tribali. Un piccolo fatto di cronaca dimostra che non si ha la forza di scegliere la strada della libanesità.

Il Libano è una Repubblica presidenziale, e il presidente è eletto dal Parlamento, come da noi in Italia. Ma il Libano è senza presidente da due anni e nessuno scrutinio ha luogo dal giugno 2023. Il governo nella vacanza della presidenza è in carica per il disbrigo degli affari correnti.

Siccome gli affari correnti non possono essere la guerra, ricreare subito istituzioni efficienti, dove decide chi ha il potere istituzionale di farlo è decisivo. Sembra strano, ma questo lo ha detto un sunnita, l’ex premier Fouad Siniora. E i cristiani? E’ il solo che capisce che la prima esigenza è ricreare lo Stato? Così nei giorni scorsi ha avuto luogo un incontro per spingere verso l’elezione del nuovo presidente tra lo sciita Berri, presidente del Parlamento, il sunnita Miqati, che guida l’esecutivo (per il disbrigo degli affari correnti) e il leader druso Joumblatt.

Tutti in Libano hanno notato che non c’era un cristiano e hanno dedotto che non era possibile, avrebbero dovuto essere almeno tre, ai ferri corti l’uno con l’altro.

Così il premier Miqati è corso ai ripari, recandosi dal patriarca maronita. Quello almeno è uno ed è riconosciuto patriarca da tutti: ma votano anche i deputati delle altre comunità cristiane.

Il punto politico di queste discussioni è decisivo per la sopravvivenza del Libano: occorre un presidente perché dobbiamo chiedere la piena attuazione della risoluzione 1701, varata nel 2006 dall’Onu, che impone il ritiro dei miliziani di Hezbollah a 30 chilometri dal confine israeliano e quindi chiedere il cessate il fuoco. Ma chi lo chiede? Lo deve chiedere il Libano.

Eleggere il presidente e un nuovo governo vuol dire: “lo Stato esiste” ed è la casa di tutti. Ma gli appetiti cristiani sono diversi.

Il vecchio patto di cui abbiamo accennato, un secolo fa, prevede che il presidente sia maronita. E gli appetiti maroniti sono evidenti. Nel 2005, dopo l’assassinio di Hariri, il capo di un partito cristiano scelse l’alleanza con Hezbollah e dopo un drammatico braccio di ferro fu eletto presidente.

Il Libano non ha un ceto politico capace di andare ad elezioni libere, aperte, dove i deputati votano e scelgono, poi ognuno si assumerà le sue responsabilità, tremende, visto che si tratta di salvare il Paese. Invece si cerca l’intesa prima del voto, per far quadrare i conti. E questo può uccidere lo Stato. C’è un errore cristiano?

L’idea del ghetto

La debolezza dello Stato libanese è la debolezza del suo ceto politico che sarebbe meglio chiamare una casta, e le colpe non sono soltanto di uno, ma nella testa di molti cristiani c’è ancora padre Henri Lammens e l’idea di un ghetto cristiano.

Questo è stato facilitato dalla trasformazione  ecclesiale in Chiese etniche, che si prendono cura cioè dei propri fedeli, non del territorio dove essi vivono.

Anche i partiti sono etnici, tribali, eterno appannaggio di vecchi signori feudali, raramente cittadini, sebbene qualcuno ci sia. In Libano si vota non dove si risiede ma lì dove si origina.

Emerge dunque l’importanza di un ricordo dei tempi della guerra civile: allora le colpe furono di tutti, ma una parte cristiana ne ebbe una particolare; dichiarare guerra al centro di Beirut, il cuore promiscuo, anche architettonicamente, della città.

Quel centro arabo e europeizzato anche nell’impianto urbanistico andava distrutto, la città doveva avere un impianto europeo, come avevano tentato di fare i francesi, sovrapponendo a un pezzo di vecchia città la fallita Place de l’Etoile.

Tutto questo ha portato molti cristiani a parlare francese, per rifiutare la loro identità di arabi. Si sentirono sfidati da Giovanni Paolo II quando scrisse nell’esortazione apostolica sul primo sinodo della storia dedicato a un Paese, il Libano:

“Vorrei insistere sulla necessità per i cristiani del Libano di mantenere e di rinsaldare i loro legami di solidarietà con il mondo arabo. Li invito a considerare il loro inserimento nella cultura araba, alla quale tanto hanno contribuito, come un’opportunità privilegiata per condurre, in armonia con gli altri cristiani dei Paese arabi, un dialogo autentico e profondo con i credenti dell’Islam”. 

Quella frase “inserimento nella cultura araba” quella parte di cristianesimo libanese l’ha vissuta come un tradimento.

Nella scia di questa visione si è inserito recentemente il Segretario di Stato, cardinale Pietro Parolin, l’unico a recarsi a Beirut poco prima che scoppiasse la guerra, nella consapevolezza dell’importanza decisiva di eleggere prestissimo un presidente. E come lo ha fatto?

Senza interferire, ma convocando i rappresentanti di tutte le comunità a un incontro per il Libano unito nel rispetto delle risoluzioni dell’Onu, geniale previsione che senza applicare la 1701 il Libano sarebbe andato incontro a problemi esistenziali.

L’alto rappresentante sciita, legato ad Hezbollah, disertò, ma soprattutto disertarono tutti i leader cristiani, che mandarono per cortesia loro sottoposti. La tattica elettorale di ognuno veniva prima della strategia! Ed è ancora così. E il Paese?

Il richiamo della montagna, la tentazione interiore di una cantonalizzazione del Libano, porta a una visione cristianista per cui la salvezza del resto del Paese conta poco; la Chiesa è etnica, il partito è tribale, perché non si crede in Beirut, pulsa nel cuore la montagna.

Ma il Libano o è cosmopolita o non è. Questa è stata la sua forza dalla nascita, forza creata soprattutto da grandi intellettuali cristiani e da missionari, protestanti e cattolici.

La visione del Segretario di Stato vaticano non è stata capita, poche settimane fa; la speranza è che si faccia a tempo a capirla oggi.

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