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L’uso politico della comunicazione volgare

La lettera di Teo Dalavecuras.

Caro direttore,

Marco Furfaro, caso mai lo ignorassi, è responsabile welfare (e altre cose che al momento non ricordo) della segreteria del Pd di Elly Schlein. Lo apprendo da una sua intervista che fa venire in mente la battuta di Churchill su Clement Attlee (“Arriva un taxi vuoto e non esce nessuno: è Attlee”), e che perciò ti risparmio. C’è però un passaggio che mi ha fatto riflettere: “A Palazzo Chigi Meloni ha perso il senso della realtà. La sua idea di Italia fa vergognare”. Il merito di queste due proposizioni non mi interessa, né voglio sottilizzare sul fatto che se Meloni, con le sue idee, fa vergognare, vuol dire che ha perso il senso del pudore, non della realtà: come molti altri giovani, anche l’uomo-welfare di Schlein punta più sulle emozioni che sulla coerenza e va bene così.

Mi ha fatto riflettere l’uso, da parte di un uomo forse di sinistra e sicuramente di progresso, della parola “vergogna”. Nei decenni della Prima Repubblica questa parola non era di uso corrente nel dialogo e nemmeno nella polemica dei politici, se non in circostanze eccezionali; e faccio fatica a considerare eccezionale l’intervista di un politico non di primissimo piano a un sito che non mi pare indirizzato alle folle oceaniche, come Huffpost, intervista che vorrebbe fare il controcanto di una conferenza stampa di routine della premier.

A trasformarla in parola di uso corrente fu, se non ricordo male, in uno dei primi scambi vivaci con i giornalisti agli albori della sua carriera politica, Silvio Berlusconi che reagì con uno stentoreo “vergogna!” al tuo collega che gli aveva posto una domanda forse scomoda e in ogni caso sgradita, evitando così di entrare nel merito. Da allora questa parola è stata definitivamente “sdoganata”, come si dice con termine che farà pure inorridire i puristi ma rende l’idea della libera circolazione.

É ovvio che questa innovazione lessicale non ha giovato alla qualità del discorso pubblici (come quasi nessuna delle analoghe innovazioni dell’ultimo trentennio) ma l’aspetto che mi interessa è un altro: il mondo progressista, che pure ha demonizzato per decenni ogni aspetto della vista privata e pubblica del Cavaliere, ne ha fatto propria con entusiasmo una terminologia che ha sicuramente involgarito il discorso pubblico ma ha un’indubbia efficacia. E non credo che sia un dettaglio. A tutt’altro livello pensa, direttore, agli elementi di continuità della politica dell’amministrazione Biden con la precedente amministrazione Trump, anche senza considerare continuità come il boicottaggio tecnologico della Cina o la riconsegna dell’Afganistan ai Talebani, in un certo senso obbligate.

Mi riferisco al fatto che già durante il quadriennio di Biden i progressisti si sono serviti dell’abbattimento del tabù dell’intangibilità della Corte Suprema per condurre una campagna nei confronti di magistrati della stessa Corte che non aveva molto da invidiare alla campagna del Cavaliere contro il “magistrato dei calzini azzurri”. Vuoi vedere che quando – com’è inevitabile – i democratici succederanno di nuovo Trump, sull’onda della sua interpretazione cesarista del ruolo presidenziale inizierà una stagione di innovazioni istituzionali in senso appunto accentrato e “imperiale” del regime politico americano? Non voglio dire che nelle fasi autocratiche di un sistema politico si introducono le innovazioni che poi nelle fasi più di routine di “procedimentalizzano”, perché non ce n’è bisogno: ti ricorderai sicuramente della teoria di Gianfranco Miglio, secondo la quale nelle fasi autoritarie si accumula potere che in quelle democratiche si consuma.

Sarebbe bello che ce ne ricordassimo anche nelle schermaglie del discorso pubblico, e non lo dico per invocare l’abolizione del tartufismo che, come ben sappiamo, di qualsiasi agorà è una componente essenziale, ma solo per attenuarne alcune deprimenti conseguenze estetiche relativizzando almeno un poco retoriche inutilmente roboanti.

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