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Landini

Perché anche il Nord ha preferito Meloni a Salvini e Letta

Che cosa emerge dal voto e dalla vittoria dei Fratelli d'Italia di Giorgia Meloni. L'analisi di Giuliano Cazzola

Giorgia Meloni entra nella storia d’Italia. Probabilmente, tra qualche decennio, dovrà accontentarsi di una nota a piè pagina, ma oggi il suo nome sta nell’apertura di tutti i giornali nazionali ed esteri.

I pronostici più lusinghieri avevano ipotizzato in certi momenti della campagna elettorale, percentuali di consenso più elevate, ma il risultato ottenuto è comunque un successo se lo si confronta con quello dei suoi alleati, in particolare quello di Matteo Salvini che si era sempre rifiutato di riconoscerle quel primato che tutti percepivano.

Poi c’è un’altra considerazione da compiere. Non sono trascorsi molti mesi da quando i sondaggi collocavano in una posizione di sostanziale parità FdI e il Pd. Anzi si diceva allora che il Piano B di Enrico Letta, dopo la rottura con Giuseppe Conte, fosse quello di emergere dalle urne come primo partito. Un ripiego tuttavia clamorosamente fallito, con un distacco netto da FdI. Occorre poi mettere subito in chiaro che non hanno vinto né il destra-centro e neppure Fratelli d’Italia. Ha vinto Giorgia Meloni se è vero che – come ha dimostrato uno studio dello Sda Bocconi , uscito riservatamente prima del giorno delle elezioni – il voto per la leadership della Fiamma ha pesato per l’81% del bottino complessivo a cui si è aggiunto un voto di trascinamento di oltre il 16%, a fronte di un voto strutturale del 2,5%. Il contrario è accaduto per il Pd e la Lega dove era assolutamente prevalente il voto strutturale (sopra al 70%) rispetto alle cattive performance dei leader.

L’altro risultato clamoroso – che del resto spiega la debacle della Lega – è la conquista del Nord (compreso il Nord Est) da parte di Fratelli d’Italia. Questo successo è significativo sotto tanti punti di vista. La parte più ricca e produttiva del Paese, i cui destini sono legati all’Europa proprio per quanto riguarda le filiere produttive, si è fidata di più di Meloni che di Salvini. E questa fiducia è anche un vincolo per la presidente di FdI che deve consolidare la nuova alleanza senza far correre avventure al Paese in un momento tanto delicato.

L’altro vincitore (sarebbe più corretto definirlo non perdente) è Giuseppe Conte con il suo movimento sia pure a firmamento ridotto. Non solo Giuseppi ha pesato più del previsto dai critici con la puzza sotto il naso sul voto complessivo pentastellato, ma ha fornito – con tanta faccia tosta visto che dirige l’unico partito rimasto ininterrottamente al governo per tutta la legislatura – un indirizzo univoco al posto del quot capita quot sententia di prima. Conte è riuscito persino a ridimensionare quella tigre di carta – Alessandro Di Battista – che era divenuto un beniamino dei talk show.

Ora il M5S si è collocato alla sinistra del Pd, arrivando a spostare persino l’asse delle campagna elettorale dem e recuperando parte di quei voti sottratti nel 2018, che poi erano rimasti ben presto delusi convergendo su Salvini e la Lega alle elezioni regionali ed europee. Il Pd è il grande sconfitto; e insieme ai dem marcano visita i frequentatori dei salotti buoni, le lobby dell’editoria, i protagonisti dello spettacolo e dell’avanspettacolo e di un sottobosco universitario che si arrogava il diritto di stabilire quanto sia politicamente corretto, sempre pronti a grandi lamentazioni e accuse di regressione al Medioevo per quanti non erano convinti di taluni ‘’nuovi diritti’’. Questi ambienti hanno condotto una campagna contro Giorgia Meloni a dir poco squallida, attaccandola sul piano personale con epiteti volgari, senza trovare però il coraggio di fare il gioco duro tirando il ballo le sue origini politiche.

L’Italia è un Paese strano: se in gioventù una persona ha militato in qualche organizzazione di estrema destra, lo stigma l’accompagna per tutta la vita. Se ha fatto parte di Potere operaio o di Lotta continua, ancora meglio di Servire il popolo; se ha spasimato per la Rivoluzione culturale (un evento aborrito dal regime cinese) è incoraggiato ad inserire queste sue esperienze nel curriculum con la certezza di averne un vantaggio. Il Pd è stato ingannato dai suoi interlocutori: dal M5S fino a Carlo Calenda; ma il suo gruppo dirigente (gli stessi che dicevano a Letta ‘’va avanti tu che a me viene da ridere!) si è visto costretto ad intessere alleanze per nulla adeguate rispetto agli obiettivi di contrapposizione alla destra e a Giorgia Meloni (quella stessa persona che proprio il segretario del Pd aveva contribuito a sdoganare, intessendo con lei un dialogo a cui la sinistra, ancora ferma al 25 aprile 1945, era sempre stata restia).

La cosa più inquietante del dibattito interno al Pd sta nella ricerca di una identità smarrita, di cui nessuno fino ad ora è stato in grado di descrivere i connotati. Il Polo Calenda-Renzi non ce l’ha fatta ad arrivare Terzo, anche se ha raccolto – dove è andato meglio – un voto qualificato su di una piattaforma nella quale nulla era dissimulato, mentre erano indicate, senza preoccuparsi di addolcire la pillola, quelle misure severe e rigorose da cui i partiti, di solito, preferiscono girare al largo. Per fortuna, poi, gli italiani hanno avvertito il lezzo delle rappattumate da ex magistrati manettari, no vax e tardo comunisti.

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