Se Alain Elkann si fosse fermato a Foggia, quale sarebbe stato il sequel? La curiosità resta. Ognuno ha il suo treno per Foggia e la sua “Ricerca” del tempo perduto. A proposito di cose di cui frega niente a nessuno, tranne che forse a qualcuno della “bolla” – dove alla nostra modesta persona importa al tempo stesso un altrettanto nulla dell’ansiogeno “acchiappo” quotidiano di like, magari acquistati a pacchetto -, il mio primo treno per il Tavoliere fu un Orvieto-Foggia. Con cambio a Roma, in una stazione Termini allora decisamente meno entusiasmante di ora che comunque non continua a farci fare salti di gioia.
Fine anni ’60. Ero con la mamma, anzi, “maman”, visto che qui sprofondiamo nella nostra modesta Recherche, però piccolo spaccato di quell’Italia molto più allegra e meno “ingrugnata” di ora. È vero, come disse Indro Montanelli, che il tempo spesso indora tutto. Però, la mamma aveva il suo elegante, seppur non lussuosissimo, abito piccolo-medio borghese di Luisa Spagnoli. Io uno giallo, sempre della stilista (e non solo) umbra, sopra il ginocchio, ma lievemente. Papà ci aspettava in quel di Foggia, alla stazione, con un fazzoletto bianco arrotolato in testa alla contadina per trattenere il sudore. Non ricordo ovviamente le cose al minuto, ma che mia mamma abbia pensato tra sé e sé “il solito burino”, credo ci stia tutta.
Mio padre era lì per lavoro: dopo l’A1, Napoli-Bari, strade adiacenti etc. Era luglio anche allora. A Foggia un caldo bestiale, da piangere, mai sentito finora in vita mia, neppure in quest’estate degli allarmismi. E poi, senza che nessuno si offenda, Foggia non aveva esattamente la stessa bellezza di Orvieto. Foggia però – da ricordare sempre – fu bombardata. Resta uno spicchio molto bello di centro storico, un po’ come a Terni, nell’Umbria da dove provenivamo. E, comunque, l’hotel Cicolella, vicino alla stazione, con il suo arredamento anni ’50-’60, per me avveniristico ancora oggi, ci apparve come l’albergo più bello del mondo.
Intendiamoci, il Cicolella, un grazioso 4 stelle, che allora equivalevano a 5, è sempre un bel posto. Almeno per me che vari anni fa, dovendo andare a Foggia per lavoro, feci prenotare lì, spinta dalla mia modesta Recerche, dal giornale dove lavoravo. Allora, in quei fine ’60-inizi ’70 (ci andammo più volte) alla radio e tv suonavano ancora Mina “Coriandoli di luce, stelline colorate…” o “Renato, Renato, Renato”. Oppure “Ho scritto t’amo sulla sabbia”.
Già, Franco IV e Franco I. Che incontrai poi, sempre in quell’estate, in un altro hotel, un po’ meno bello, ma al mare, a Marina di Siponto, ai piedi del Gargano che proprio allora veniva scoperto dal turismo italiano e internazionale. A causa della loro giacca bianca, scambiai i due già affermati cantanti per camerieri. Con ricche risate dei clienti. Era dal pomeriggio, rientrata in albergo con “maman”, sempre con i capelli a posto, lievemente cotonati, dal lido antistante, che ero incorsa nell’esilarante errore. Sentii, mentre mi preparavo per la cena con orari un po’ da convento, da una stanza cantare “…ho scritto t’amo”.
Pensai: guarda come li imitano bene, sembrano proprio loro. Poi, di corsa con mia madre e quel suo “e pettinati bene” e questo e quell’altro, al ristorante interno per quella cena che ti lasciava sempre un grande appetito. Una volta mio padre, ex sfollato di Anzio-Nettuno, famiglia povera, piccolo self-made man, si spazientì con il cameriere per quei due pezzetti di pesce, seppur ottimo, che regolarmente ti servivano come secondo a tavola. Una signora milanese, più chic di mio padre, gli dette ragione: “Qui, caro signore, si paga per morire di fame. Ha fatto bene!”. Un’altra, insegnante di Torino, solidarizzò. Vacanze da piccola media borghesia fine ’60, inizi ’70. E la sera “Il ballo di Simone” di Giuliano e i Notturni o “Azzurro” di Celentano al juke-box. Non era un lussuoso hotel, come quelli appena inaugurati sul Gargano. Ma era moltissimo in un’Italia dove andare in quella che si chiamava “villeggiatura” non era ancora per tutti. Però, restava, sulla scia dei ’50, l’allegria, l’energia del boom e della ricostruzione. E forse c’era maggiore consapevolezza da parte di noi ragazzi dei sacrifici che un padre faceva per assicurarti la “villeggiatura”.
I tatuaggi iniziavano allora. Mio padre mi avrebbe cacciata di casa se ne avessi avuto solo uno. Lo fece vari anni dopo quando mi misi in testa di fare la giornalista e anche di politica. Non c’entrava niente il fatto che fossi una donna, per lui, di vedute ampie, donne e uomini pari erano. Quando tornava a Orvieto, erano più le volte che cucinava lui che mia madre. Ma non considerava il giornalismo un vero lavoro. E ora da lassù direbbe: “E basta co’ ‘ste cavolate che mi tirano in ballo, di cui importa niente a nessuno, vedi di lavora’!”. E però, qui il direttore del giornale che gentilmente mi ospita non se ne vorrà, avendo un po’ ereditato il carattere tosto di mio padre, al posto di Elkann io la “Recherche” l’avrei tirata in testa ai “lanzichenecchi”, che poracci non erano. Stavano con lui in prima classe, non in seconda come pendolari qualsiasi, ieri pure sfottuti sui social da qualche “Alain” dei poveri. Ci credo che stava sempre sulla stessa pagina. Non lo facevano leggere, “por’omo”, direbbero a Orvieto.
In tutto questo, una grande pubblicità per una città dimenticata. Tutti in treno per Foggia. Poi, sul Gargano. L’estate non è ancora finita.