Per qualche giorno il mondo s’era girato dall’altra parte. I dazi minacciati e poi sospesi da Donald Trump avevano imposto a tutti di guardare altrove.
Ma ci ha pensato Vladimir Putin a ricordare ai distratti dell’universo di che pasta sono fatti lui e la guerra scatenata contro l’Ucraina, tre anni e due mesi fa: nella domenica delle Palme ha attaccato con violenza inaudita la città di Sumy (nordest del Paese). Più di 34 morti -tra cui due bambini- e 117 feriti sono il tributo dei suoi missili donato alle cosiddette e mai nate trattative di pace.
“Solo un bastardo può fare questo”, è il commento, che dice tutto, del presidente ucraino, Volodymyr Zelensky. Non sono stati colpiti militari armati, bensì civili che andavano a messa per la sacra ricorrenza. “Strage vile e orribile”, gli ha fatto eco la nostra presidente del Consiglio, Giorgia Meloni.
Ma l’indignazione non conosce confini. Da ogni parte del pianeta e da ogni istituzione arrivano parole durissime contro un atto tanto “barbaro” (Olaf Scholz, cancelliere tedesco), “crudele” (Pedro Sánchez, primo ministro spagnolo) e di “disprezzo per la vita e la diplomazia” (Emmanuel Macron, presidente francese). Persino Keith Kellogg, l’inviato speciale di Trump per Russia e Ucraina -un inviato che aveva prospettato e poi costretto a rettificare il piano surreale di spartire l’Ucraina come per 40 anni lo fu Berlino tra quattro potenze straniere all’indomani della seconda guerra mondiale-, ora constata che l’attacco “ha superato i limiti della decenza”.
L’effetto politico dell’ennesima strage degli innocenti non si fa attendere. “Sono urgentemente necessarie misure forti per imporre la tregua”, dice la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, chiaramente rivolgendosi a quanti, a cominciare dall’illuso o forse solo inconsapevole, Trump, credevano di poter portare Putin al tavolo di negoziati e di poter fermare il conflitto nel giro di 24 ore.
Ore, invece, ne sono trascorse in quantità senza che lo Zar abbia accolto neanche la minima richiesta di sospendere bombardamenti da parte degli interlocutori americani. I quali, come Steve Witkoff, altro inviato di Trump, hanno salutato Putin portandosi la mano sul cuore e passando quattro ore di inutili colloqui con lui.
Il brutale realismo a cui la domenica di sangue riporta il mondo, avvalora il punto di vista occidentale: l’unico modo per costringere quest’uomo a trattare, è quello di contribuire a mettere l’Ucraina nelle migliori condizioni per difendersi. Altrimenti è resa, come l’attacco alla città di Sumy punta a ottenere. E’ il messaggio, terribile, che gli ucraini devono continuare a vivere nella paura. Che nulla, neppure l’ottimistica, solitaria e finora impotente mediazione di Trump, può far cambiare idea all’aggressore.
Per il presidente americano diventa sempre più difficile affidarsi alle parole, neppure mantenute, di Putin. Quasi inevitabile imboccare la strada delle sanzioni contro la Russia, che Trump ha evocato nel caso del fallimento delle sue conversazioni esclusive con chi non vuole ascoltare.
(Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza, Bresciaoggi e Gazzetta di Mantova)
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