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Fat feminism

La Nota diplomatica di James Hansen

Gli stranieri che visitano gli Usa sono spesso colpiti dalla prevalenza dell’obesità che trovano—e anche dalla seconda impressione, che il fenomeno sia più presente tra le donne. Già nel 2016, secondo il National Institute of Health, la proporzione della popolazione femminile americana che rientrava nella definizione di obesità superava il 41,5%, mentre un altro 27,5% era solo “in sovrappeso”. Insieme, il 69% delle donne americane potevano essere descritte come “fisicamente abbondanti”… Il futuro non promette meglio. Sempre nel 2016 il tasso di obesità tra i maschietti del gruppo d’età tra i 6 e gli 11 anni era del 7%, mentre quello delle coetanee femmine superava il 18%. C’è da temere l’arrivo di una nuova e ancora più ampia generazione di americane “plus-size”.

L’associazione tra il peso in eccesso e il femminismo radicale negli Stati Uniti non viene negata neppure dalle attiviste più accese—che però spesso danno la colpa agli “oppressori” maschi: un’ipotesi corrente è che le donne mangino di più nel tentativo di proteggersi dal “male gaze”, lo “sguardo lascivo” maschile. Cioè, ingrasserebbero appositamente per pararsi dai desideri degli uomini. Oltre a spostare il discorso femminista negli Usa sul tema della “bellezza interiore”, la crescente massa corporea del movimento ha anche innescato il tentativo di trovare aspetti positivi —”grasso è bello”— nel sovrappeso e di considerarlo una forma di rivolta contro i canoni di bellezza “artificialmente imposti” dagli uomini. L’autrice Laura Brown, nel suo “Fat Oppression and Psycotherapy” dichiara che l’obesità offrirebbe perfino dei vantaggi per la salute, almeno nel senso che restando grasse si evitano i pericoli — bulimia, anoressia, depressione e ansia — insiti nel tentativo di aderire a standard di bellezza convenzionali. Sono tematiche che hanno portato all’emergere del fat feminism, un’importante tendenza della cosiddetta “quarta onda” del femminismo anglosassone.

L’idea è che, avendo ottenuto le necessarie protezioni legali, il movimento dovrebbe ora concentrarsi sulle percezioni sociali. Ha ottenuto una prima vittoria quando la Mattel, molto criticata per il concetto di bellezza femminile espressa dalla bambola Barbie, ha lanciato all’inizio del 2016 la “Curvy Barbie” dalle forme più massicce. Presente solo nel mercato Usa, dopo vendite dapprima positive non ha salvato le fortune delle famosa bambola, in declino dal 2009.

L’associazione tra femminismo e peso in eccesso è concessa a tal punto che le attiviste anglosassoni tendono ad assumersene i meriti, seppure in maniera rovesciata, come nel caso della Presidente della “Food Board” della Città di Londra, Rosie Boycott, che si è recentemente fatta una sorta di autocritica per il suo attivismo nel liberare le donne dalle cucine di casa per mandarle nel mondo del lavoro e, di conseguenza, nel mondo malsano del fast food. Rispondendo a una domanda sul ruolo del femminismo nell’attuale epidemia di obesità, Ms. Boycott ha risposto di sentirsi “parzialmente responsabile” per la “lost generation” di quelle che consumano cibi industriali. “Ho detto loro: ‘Non state in casa a preparare i pasti… Così farete strada’. Invece abbiamo perso tutto… Hanno smesso tutte di cucinare”. Indipendentemente dai meriti o demeriti, ciò che allarma è che, secondo i dati, l’obesità femminile nel mondo anglosassone prevalga—di molto—sul semplice sovrappeso. Che imparino i maschi oppressori…

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