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Ecco come Facebook ha nascosto la verità sulla disinformatia russa alle presidenziali Usa

Il Punto di Marco Orioles

Due rapporti di ricerca commissionati dal Senato americano gettano nuova luce sull’operazione di influenza lanciata a partire dal 2015 dalla fabbrica di troll di San Pietroburgo al fine di condizionare l’opinione pubblica Usa e cercare di manipolare le elezioni presidenziali del 2016. E rivelano la reticenza delle piattaforme social, in particolare Facebook, che non avrebbero detto tutta la verità alle commissioni intelligence del Congresso che l’anno scorso hanno chiesto lumi sulla disinformatia russa.

I rapporti di ricerca sono stati realizzati rispettivamente da New Knowledge, azienda di cybersecurity di Austin, insieme a ricercatori della Columbia University e di Canfield Resarch LLC, e da Computational Propaganda Project, dell’Università di Oxford, in collaborazione con Graphika, compagnia specializzata in analisi del social media. È stato esaminato il materiale messo a disposizione dai colossi tecnologici Usa e parzialmente già reso noto l’anno scorso in occasione delle audizioni dei loro manager a Capitol Hill.

Rispetto a quanto già di dominio pubblico, dai due nuovi rapporti affiora la complessità e la capacità di penetrazione di un’operazione sofisticata e in grande stile, che ha trovato nelle più popolari piattaforme social, palcoscenico della vita quotidiana dei cittadini, il cavallo di Troia con cui insinuare nel dibattito pubblico un’astuta e ben congegnata propaganda. Protagonisti dell’offensiva sono stati però non solo Facebook e Twitter, oggetto della disamina effettuata l’anno scorso dai legislatori, ma anche il social più gettonato tra i giovani, Instagram (controllato da Facebook), il portale video YouTube e tutta una serie di piattaforme minori come Reddit, Tumblr, Pinterest, Vine and Google+. Tutti canali inondati dai meme, dai messaggi e dai video realizzati ad arte dagli hacker russi guidati da Yevgeny V. Prigozhin, titolare della Internet Research Agency (Ira) basata a San Pietroburgo e amico personale del presidente russo Vladimir Putin.

La novità più rilevante riguarda Instagram, il social delle immagini. Che nelle operazioni russe ha avuto un ruolo addirittura maggiore di quello di Facebook e Twitter. Tra il 2015 e il 2018, i post Instagram dell’Ira hanno totalizzato infatti 187 milioni di interazioni, contro le 76,5 registrate presso la piattaforma di Zuckerberg e le 73 sul social dei 280 caratteri. Il record registrato da Instagram è, secondo gli autori del rapporto di New Knowledge, “un indicatore che la piattaforma è ideale per una guerra dei meme”. “Instagram”; osservano ancora i ricercatori, “è stato un fronte significativo nell’operazione di influenza dell’Ira, cosa che – si aggiunge, significativamente – i manager di Facebook sembra abbiano evitato di riferire nelle loro testimonianze al Congresso”.

Le indagini evidenziano l’esistenza di un numero relativamente contenuto di account – un’ottantina – gestiti dai troll russi, ognuno dei quali è stato però capace di accumulare un numero consistente di seguaci. Il 40% degli account Instagram diretti dall’Ira aveva infatti più di diecimila follower e altri dodici ne avevano più di centomila, di cui uno ne contava più di trecentomila.

Quanto al modus operandi, i post dell’Ira miravano da un lato ad accrescere i consensi del candidato alla presidenza Donald Trump, e dall’altro a danneggiare l’immagine e la reputazione della sua avversaria democratica Hillary Clinton. L’esempio più lampante riguarda l’account Instagram “@army_of_jesus” che diffondeva rispettivamente meme di Gesù Cristo, associandolo alla campagna di Trump, e del Diavolo, collegandolo a Hillary.

Cominciate nel 2015, le operazioni condotte dalla centrale di San Pietroburgo sono andate avanti sino ad oggi, a dispetto dell’ampia risonanza che hanno avuto la denuncia delle interferenze russe da parte dell’intelligence Usa e del Congresso e dell’indagine sul Russiagate condotta dallo special counsel Robert Mueller (che ha già sanzionato Prigozhin e una decina di suoi collaboratori). Ad esempio nel 2017, quando Trump era saldamente insediato alla Casa Bianca, i troll dell’Ira si adoperavano per mettere in cattiva luce l’inchiesta di Mueller, descrivendola come una “cospirazione” portata avanti da “liberal piagnoni”, mentre una pagina Facebook sempre riconducibile alla fabbrica di San Pietroburgo insinuava che Mueller avesse “lavorato con gruppi islamici radicali”.

Da due rapporti emerge inoltre una nuova sfumatura della campagna di disinformazione portata avanti dai russi: l’insistenza con cui sono stati utilizzati temi sensibili per gli afro-americani. Trenta degli 81 account creati dall’Ira – che hanno totalizzato 1,2 milioni di follower – puntavano a costituirsi un’audience nera, evocando temi e personaggi cari agli afroamericani come Malcolm X e le Pantere Nere. Il rapporto di New Knowledge sottolinea come, mentre “altri gruppi etnici e religiosi erano al centro di un paio di pagine Facebook e di account Instagram, la comunità nera è stata presa di mira estensivamente con decine“ di account. “Gli sforzi più prolifici dell’Ira su Facebook e Instagram”, precisano i ricercatori, “hanno specificatamente preso di mira le comunità nere americane e sembrano essersi concentrate nella formazione di audience di neri e nel reclutamento di neri americani come asset”.

La strategia impiegata è vecchia come il cucco. Già i sovietici enfatizzavano le divisioni e gli scontri interraziali per delegittimare la società americana. I troll dell’Ira, in questo senso, hanno riesumato un metodo già rodato, applicandolo alle circostanze correnti. Molto frequente, ad esempio, il riferimento alle violenze perpetrate dalla polizia americana nei confronti dei neri e al movimento “Black Lives Matter” che si è formato tre anni fa per denunciarle. Su questo punto, la propaganda russa si è sbizzarrita, ricorrendo anche a video circolati in canali YouTube creati per l’occasione con nomi come “Don’t Shoot” e “BlackToLive”. Come osserva Renee DiResta, direttore di New Knowledge, l’Ira non ha dovuto fare altro che pescare nel dibattito pubblico americano temi roventi – “doglianze preesistenti e legittime”, le definisce DiResta – e sfruttarli per intorbidare le acque.

Ma il dato che salta più agli occhi, da queste rivelazioni, è il comportamento ambiguo delle piattaforme social e dei loro dirigenti. Che sembra non abbiano detto tutta la verità ai parlamentari quando questi, una volta che la vicenda dei troll russi è diventata di dominio pubblico, li hanno obbligati a testimoniare a Capitol Hill. “Purtroppo” si legge nel rapporto di New Knowledge, “sembra che le piattaforme abbiano travisato o eluso in alcune delle loro dichiarazioni al Congresso. (…) Non è chiaro se le loro risposte (al Congresso) fossero il risultato di analisi viziate o carenti, o di una elusione deliberata”.

Incalzata dalle nuove notizie, la numero 2 di Facebook Sheryl Sandberg è stata costretta a venire allo scoperto. Con un post diretto ai suoi dipendenti, Sandberg ha ammesso il problema, giurando che è al centro delle preoccupazioni dell’azienda. “Prendiamo tutto ciò incredibilmente sul serio”, ha scritto la COO di Facebook, “come dimostrano gli investimenti che abbiamo fatto in sicurezza e sorveglianza”. Sandberg ha ricordato come, in occasione delle elezioni di midterm dello scorso novembre, Facebook abbia allestito una “war room” nel quartier generale di Menlo Park con lo scopo di monitorare attentamente quel che accadeva nella piattaforma. Troppo poco, probabilmente, per arginare una questione che ha già macchiato indelebilmente la reputazione dei social ed evidenziato i rischi che tutti noi corriamo quando scorriamo la timeline della nostra piattaforma preferita.

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