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Tunisia

Errori, fissazioni e ambizioni di Giuseppe Conte

Sfide, nodi da sciogliere e mire recondite di Giuseppe Conte dimissionario

 

Quali sono gli elementi che distinguono la politica da qualsiasi altra disciplina? In passato si parlava di autonomia, per indicare una soggettività non contenibile nel recinto troppo stretto di un angusto positivismo. Ebbene, nel tentativo di rispondere a questo interrogativo, due sembrano essere le qualità di un politico di razza: la sua capacità di valutare i reali rapporti di forza nelle situazioni in cui è chiamato ad operare e la scelta, più opportuna, dei tempi per reagire. Tutta la doppiezza togliattiana si collocava in questo schema.

Guardando alle ultime mosse di Giuseppe Conte, non sembra che queste regole siano state rispettate. Cominciamo dalla valutazione dei rapporti di forza. Li aveva calcolati, con un certo successo, nella conta, che ha fatto seguito alle dimissioni dei rappresentanti di Italia Viva. Maggioranza assoluta alla Camera, relativa al Senato. I conti sembravano tornare, ma si trattava, invece, di un errore di prospettiva. Non bisognava fermarsi a quella sera, tanto concitata. Si doveva mettere, anche, nel conto quanto sarebbe successo di lì a poco, in vista della risoluzione sulla giustizia: seduta in cui quella maggioranza di 156 voti, sarebbe evaporata come neve al sole.

Se questa era l’evoluzione più probabile, ecco allora il secondo errore. Conte non doveva aspettare. Soprattutto non tentennare, sfogliando, per tredici giorni, la margherita. Ottenuta la vittoria nei confronti dell’odiato rivale, doveva subito recarsi al Quirinale per rassegnare le dimissioni. Un gesto nobile non nel segno della debolezza, ma della responsabilità. La ricerca di una maggioranza più ampia per far fronte ad una fase complessa, sia dal punto di vista epidemiologico che economico, quale era quella che il Governo sarebbe stato costretto ad affrontare.

Forse non sarebbe cambiato un gran ché, ma certo la stima nei confronti della sua persona non avrebbe subito i contraccolpi che si sono avvertiti, già in questi giorni. Avrebbe, al contrario, dimostrato quella statura che distingue, appunto, un politico vero, da un tecnico o un giurista, capitato un po’ per caso nei paraggi di Palazzo Chigi. Ed avrebbe, in qualche modo, contribuito a sfatare quei precedenti che non sono a favore degli outsider. In passato, Mario Monti aveva cercato di monetizzare, sul piano politico, la sua esperienza di Presidente del consiglio, dando luogo alla nascita di un suo partito personale: quella “Scelta civica” che è durata lo spazio di un mattino.

Giuseppe Conte farà tesoro di quell’insegnamento? Tenterà di costituire un suo partito personale, di cui già sarebbe stato individuato il logo: “Insieme” o “Con Te”, come si è lasciato sfuggire Beppe Grillo. Anche in questo caso la scelta dei tempi non è stata la più felice. Si è trattato – è vero – di semplici indiscrezioni. Non avvalorate dai diretti responsabili. Ma in questi casi si opera come in borsa: si acquista e si vende sui rumor. Attendere le soluzioni definitive, significa rimetterci soldi. Ed entrambi i suoi supporter – il Pd da un lato i 5 stelle dall’altro – hanno, da allora, cominciato ad interrogarsi,

Un sospetto destinato ad avvelenare un po’ l’atmosfera. Raffreddando gli animi. Sebbene continuasse il lavorio per far nascere, dalla spuma del mare, il gruppo dei responsabili. Al momento non pervenuto, ma domani è un altro giorno. Se nascerà avrà il volto di Bruno Tabacci, classe 1946, il record quasi assoluto di sei legislature alle spalle, senza poi considerare il suo passato di presidente della Regione Lombardia e mille incarichi di sottogoverno. Il rappresentante più puro di quella casta tanto odiata dai 5 stelle al tempo della campagna elettorale. Oggi la loro stampella più pregiata. Coerenza di quell’intransigenza a giorni alterni, che potrebbe essere, tuttavia, pagata cara sul piano del consenso elettorale

C’è, poi, un’altro ostacolo sulla via del nuovo governo. Per vederlo fin da ora è necessario guardare lontano. Conte è stato costretto alle dimissioni per salvare Alfonso Bonafede e la sua idea di giustizia. Un giustizialismo peloso, che incontra solo il favore di Piercamillo Davigo e pochi altri. In altri momenti un ministro così ingombrante sarebbe stato facilmente neutralizzato. Ed invece era stato lo stesso Luigi Di Maio, nella trasmissione di Lucia Annunziata, a porre il veto. Bonafede non si tocca – aveva ribadito, facendo la faccia feroce – semmai cade il Governo. E così è stato. Nei giorni passati, ma fa domani che succederà? Sarà sempre Bonafede il nuovo/vecchio guardasigilli del prossimo governo? Ma, soprattutto, di quale governo?

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