Nel 2008 la presidenza Obama è un fatto storico perché segna l’irreversibile integrazione razziale degli Stati Uniti: il presidente “nero”. E insieme registra la crisi profonda di un partito repubblicano che ha rinunciato a ogni chance di vittoria per fare (pur con diversi errori) il proprio dovere di difendere il ruolo degli Stati Uniti (e dunque delle democrazie liberali) nel mondo dopo gli attentati dell’11 settembre 2001.
La deriva, poi, dei “candidati deboli” Gop alla Casa Bianca, politici come John McCain e Mitt Romney, di alta qualità morale ma privi di una forte personalità, lascia senza rappresentanza un’area vasta della società che non si sente tutelata dagli effetti della pur indispensabile globalizzazione: ciò avviene anche perché la supremazia liberal sui media descrive ogni dissenso dal pensiero unico dominante, come mostruoso e inaccettabile.
E così alla fine arriva il “mostro” Donald Trump, che senza il Covid e le stupidaggini fatte grazie a una sua approssimativa (eufemismo) cultura istituzionale, sarebbe stato rieletto nel 2020. La sconfitta di “The Donald” è accompagnata da una serie di sue prese di posizione sulla legittimità del voto, politicamente insensate e irresponsabili. Senza però perdere il senso della misura sugli evocati colpi di stato: la colpa essenziale della sceneggiata di Capitol Hill è dell’Fbi e della polizia addetta a difendere il Congresso. Nel 2020, come dimostrano anche le elezioni di midterm del 2022, vi è negli Stati Uniti un’ampia area di motivata disapprovazione verso le scalmanate posizioni trumpiane. Ma Joe Biden, invece di cogliere il momento, pacificare l’America, mandare a casa con grazia e definitivamente l’ex presidente dal ciuffo arancione, in qualche modo aiuta a tener politicamente in vita l’ex protagonista di The Apprentice perché lo considera il suo miglior sfidante perdente.
Infatti un’amministrazione democratica priva di visione, ultrapasticciona in politica estera (Afghanistan, Ucraina, Medio Oriente) confrontandosi con un serio politico di destra, ad esempio Ron DeSantis, avrebbe finito sicuramente per perdere nel 2024. Non fanno quello che fecero i repubblicani dopo George Bush jr nel 2008, cioè perdere abbastanza consapevolmente le elezioni per consolidare gli Stati Uniti: ciò non passa neanche per la testa a un partito dell’Elefantino in preda a clan e radicali.
L’atteggiamento manipolatorio tenuto da Biden e dalla stampa liberal (ci scegliamo lo sfidante perdente) riattiva la pancia dell’America stanca dei “giochetti” tipo quelli dell’imbrogliona-in-chief Hillary Clinton. Così inflazione, immigrazione clandestina, ideologia woke imposta anche con nuove forme di censura, fanatismi ideologico-ecologistici, esternalizzazione del lavoro americano, diventano una miscela esplosiva che fa preferire “il mostro” alla inconsistente Kamala Harris. Il ritorno di Trump comporta dei rischi, ma da non esagerare come ci spiega uno dei pochi leader politici europei con la testa sulle spalle, Mark Rutte.