Lo scetticismo è d’obbligo, viste le divergenze ormai di lungo periodo che governano le agende europee dei due paesi un tempo considerati il motore dell’Ue, Francia e Germania. La stampa internazionale, e in particolare quella dei due paesi interessati, ha descritto come incompatibili le politiche europee perseguite da Emmanuel Macron e Olaf Scholz, aggiungendoci un pizzico di insofferenza reciproca, quasi a indicare che l’assenza di una visione comune dipenda dalla personalità spigolosa dei due attuali leader politici.
Così la visita del presidente francese in Germania, in occasione delle celebrazioni per i 75 anni della Legge fondamentale (praticamente la Costituzione della Repubblica federale tedesca) è servita – come sempre in diplomazia – per rilanciare un programma condiviso per l’Europa, nella convinzione oramai in un’Unione allargata a 27 confinata solo attorno alle due sponde del Reno che quel che è buono per Francia e Germania lo sia per tutta l’Ue. Un programma minimo, indefinito quanto basta per metterci dentro un paio di idee che, a guardarle da vicino, poco hanno a che fare con le sfide drammatiche ed esistenziali che il continente (e il progetto politico che ne ha sostanziato il destino nei decenni dal dopoguerra a oggi) sta vivendo. In un articolo a doppia firma pubblicato sul Financial Times (un segno dei tempi che sia stato prescelta la bibbia dell’universo finanziario) Macron e Scholz propongono di rafforzare la competitività europea attraverso un’ambiziosa politica industriale dell’Ue, una decisa riduzione della burocrazia e una rapida attuazione dell’Unione dei mercati dei capitali.
Fiumi di retorica hanno innaffiato questo “maigre programme”, a partire dai colloqui durante le cene conviviali tra il presidente francese e quello tedesco Frank-Walter Steinmeier, le dichiarazioni di contorno ultra-filo-europeiste di ministri e presidenti di Länder assisi alle tavolate, fino al discorso ai giovani di Macron nella piazza della Frauenkirche a Dresda nel corso dell’Europafest. Di luoghi simbolici dentro i quali imbottigliare questi fiumi retorici l’Europa abbonda e la rinata Frauenkirche della capitale sassone, ridotta in macerie per le conseguenze del tragico bombardamento del febbraio 1945 e riedificata dopo la riunificazione del 1989, è uno di questi. Ma l’involucro non impreziosisce il contenuto. E per restare ai punti economici che secondo Macron e Scholz dovrebbero ridare fiato all’Unione, salta già agli occhi la contraddizione fra l’ambiziosa politica industriale dell’Ue e la decisa riduzione della burocrazia. Come osserva l’Handelsblatt, “l’esperienza ha dimostrato che esiste una certa tensione tra le esigenze di politica industriale e la riduzione della burocrazia, perché la politica industriale significa maggiore controllo statale sull’economia e sull’innovazione e quindi, solitamente, più burocrazia”.
Senza contare che uno dei punti di maggior frizione fra i due paesi è la volontà francese di finanziare politiche industriali attraverso l’assunzione di nuovi debiti comuni nell’Ue, e l’articolo a quattro mani sul Financial Times non offre alcuna indicazione di riavvicinamento sul tema.
Migliore era stato il discorso di Macron alla Sorbona, un paio di mesi fa, quello dell’Europa che rischia di morire di fronte alla rinnovata minaccia alla sua sicurezza che arriva da Oriente e alla sua incapacità di compiere i passi in avanti – istituzionali e dunque politici – per sfuggire al destino di
inconsistenza nel grande gioco delle potenze del Ventunesimo secolo. Quantomeno quel discorso conteneva un fondo di drammaticità, ma anche in quel caso da Berlino non era arrivato alcun cenno di empatia. Semmai il fastidio, neppure troppo celato, per quelle che l’establishment tedesco considera fughe in avanti, proclami pirotecnici a esclusivo uso interno.
I colloqui politici con Scholz al castello di Meseberg, alle porte di Berlino, con cui Macron concluderà la sua tre giorni di viaggio in Germania, offriranno qualche puntello a mantenere in piedi la facciata, rinnovando magari a uso elettorale interno (fra due settimane si vota) l’allarme per il pericolo sovranista. Ma sono destinati a lasciare un forte senso di nostalgia per quando i protagonisti di questi summit si chiamavano Valéry Giscard d’Estaing ed Helmut Schmidt, Helmut Kohl e François Mitterrand, finanche Gerhard Schröder e Jacques Chirac.