L’attuale segretaria del Pd, Elly Schlein, ha deciso di firmare i referendum proposti dalla Cgil contro una delle principali riforme varate dal Pd quando alla guida del governo (e del partito) c’era Matteo Renzi: il cosiddetto Jobs Act. Riforma che si potrà legittimamente criticare per molte ragioni, dalla filosofia generale che l’ha ispirata (l’idea che i problemi dell’occupazione dipendessero dalla rigidità del mercato del lavoro) al nome ridicolo con cui Renzi decise di propagandarla.
Ma nessuno di questi argomenti coglierebbe nemmeno di striscio il punto. E il punto è che, firmando i referendum della Cgil, Schlein ha tolto davvero il suo nome dal Pd. E il tentativo di ridimensionare il valore politico e simbolico della scelta dando a intendere che si tratti quasi di una questione personale, neanche fosse un caso di coscienza, non fa che aggiungere assurdità alla vicenda: in un partito, come del resto in qualsiasi altra organizzazione umana, tutti possono legittimamente dissentire e dissociarsi dalla linea comune, tranne il capo.
Ma è un’assurdità di cui è facile capire la genesi: perché altrimenti la segretaria avrebbe dovuto ammettere l’ovvio, e cioè che il suo gesto implica non solo una sconfessione, ma di fatto una richiesta di abiura nei confronti del suo intero gruppo dirigente, che quella riforma ha votato in parlamento.
Si dirà che la faccio troppo lunga, che i tempi sono cambiati, che sui banchi del Pd oggi siedono – spellandosi le mani per Schlein – anche coloro che a suo tempo votarono il Jobs Act in parlamento e solo un paio d’anni più tardi promossero una scissione per tutt’altre ragioni (perché il segretario-tiranno voleva un congresso in cui misurare il consenso di ciascuno, mica perché lo rifiutava). A me però la scelta della segretaria pare significativa soprattutto perché arriva a breve distanza dalla decisione di candidare alle europee Marco Tarquinio, famoso, oltre che per le sue posizioni pseudo-pacifiste sull’Ucraina, per le battaglie contro l’aborto (da lui equiparato alla pena di morte), contro le unioni civili e contro l’idea stessa che esistano diversi tipi di famiglie, oltre quella formata da un uomo e una donna.
Tanto da guadagnargli l’affettuoso benvenuto del generale Roberto Vannacci nella schiera degli intellettuali scomodi in lotta contro la dittatura progressista. Le due scelte mi pare si illuminino a vicenda e indichino una chiara scala di priorità della segretaria, dispostissima a sacrificare, per ragioni tattiche o per cause di forza maggiore, l’immagine (e la coerenza) del partito, ma non la sua personale. Una sorta di dissociazione silenziosa, tanto più significativa all’indomani del maldestro tentativo di mettere il suo nome nel simbolo del Pd. Dopo le europee, mi pare evidente che il divario aperto tra la segretaria e il suo gruppo dirigente andrà colmato, cambiando l’una o l’altro, a seconda del risultato elettorale. In ogni caso, che sia il gruppo dirigente a cambiare la segretaria o la segretaria a cambiare il gruppo dirigente, posso anticipare sin d’ora quale sarà il mio commento: gli sta bene.