Il conflitto a Gaza travolge i Paesi vicini. Egitto, Giordania e Libia ne patiscono le conseguenze non solo in termini di instabilità ma anche di aggravamento di una crisi economica già preoccupante. Una preziosa fonte di reddito e posti di lavoro come il turismo è in particolare minacciata dall’indefinito protrarsi delle ostilità. Ecco tutti i sintomi e le cause del più recente malessere di questi Paesi problematici.
I contraccolpi economici della guerra
Egitto, Giordania e Libano sono tre Paesi che hanno due cose in comune: confinano con Israele e hanno economie che stanno patendo gravi danni dalla guerra scagliata da Tel Aviv contro gli islamisti di Hamas.
Del malessere di questi tre Paesi arabi risucchiati dalla crisi ne ha parlato il New York Times rilanciando anzitutto un rapporto del 13 dicembre scorso stilato dall’United Nations Development Programme (UNDP) e dall’Economic and Social Commission for Western Asia (ESCWA) che stimava come le tre economie alla fine dell’anno avrebbero perso a causa del conflitto il 2,3% del loro Pil aggregato ovvero ben 10.3 miliardi di dollari, con un tonfo che getterà nella povertà 230.000 persone aggravando un quadro sociale già drammatico.
Potrebbe peggiorare
Ma le pessime notizie non finiscono qui: poiché la guerra si protrae in un orizzonte indefinito, gli autori del rapporto stimano che Egitto, Giordania e Libano potrebbero perdere in questo 2024 ulteriori 18 miliardi, pari al 4% del loro Pil.
“Lo sviluppo umano in (questi tre Paesi) potrebbe regredire di almeno due o tre anni”, ammonisce il testo che menziona, tra le cause, crescenti flussi di rifugiati, debito pubblico alle stelle, scambi commerciali ridotti e un crollo di quel settore turistico che da sempre rappresenta per le tre capitali un’irrinunciabile fonte di reddito, posti di lavoro e valuta estera.
La preoccupazione dell’Fmi
Ma ancor prima dell’UNDP e dell’ESCWA era stato l’Fmi con un rapporto pubblicato il 1 dicembre a lanciare l’allarme sulle ricadute regionali della guerra a Gaza, annunciando l’intenzione di rivedere il proprio outlook per le economie del Medio Oriente e del Nord Africa alla luce della riduzione dei ritmi della crescita scesa dal 5,6% del 2022 al 2% dell’anno successivo.
E per l’Fmi erano proprio Egitto, Giordania e Libano i Paesi dove si registravano i maggiori “riverberi economici” di una guerra che ha finito per colpire quel comparto del turismo che nel 2019 rappresentava tra il 35 e il 50% dei beni e servizi esportati da quelle economie.
Libano a picco
E a soffrire più di tutti sarebbe stato quel Libano dove a ottobre il tasso di occupazione degli hotel è crollato del 45% rispetto all’anno prima.
Va ricordato che il Paese dei cedri è ancora immerso fino al collo in quella che la Banca Mondiale aveva definito una delle peggiori crisi finanziarie ed economiche mai verificatesi nel mondo dalla metà del XIX secolo, addirittura secondo l’organismo la terza più grave di questo lunghissimo periodo.
Tribolazioni al Cairo
Ma anche il Paese dei Faraoni, il più popoloso del mondo arabo, è sull’orlo dell’insolvenza, in una spirale aggravata dalla fortissima crescita dei costi di importazioni di beni essenziali come grano ed energia, dal calo degli investimenti esteri che risale ancora alla pandemia, dalle conseguenze della guerra in Ucraina, cui ora si aggiunge l’inesorabile effetto dei ridotti flussi turistici.
Il boom della spesa pubblica destinata a megaprogetti infrastrutturali ma anche agli ingenti acquisti di armi ha fatto esplodere il debito dell’Egitto (quadruplicato quello estero secondo il calcolo di Reuters) messo in difficoltà dai tagli dei tassi decisi dalle banche centrali nel mondo che hanno fatto lievitare i pagamenti dovuti dal Cairo. A tutto questo si aggiunge il downgrading deciso a novembre dalle tre maggiori agenzie di rating che ha portato il debito del Paese ancor più in territorio spazzatura.
Ma nonostante questo, spiega al New York Times Joshua Landis, direttore del Center for Middle East Studies all’Università dell’Oklahoma, né il Fondo monetario né gli Usa permetteranno il default per quei 165 miliardi di prestiti cotrratti all’estero da un Paese così strategico che anche in queste ore sta dando il suo contributo alla deescalation del conflitto scoppiato alle sue porte.
“Nessuno vuole investirci, ma l’Egitto è troppo grande per fallire”, commenta Landis.
Il nodo di Suez
Al protrarsi della guerra, e soprattutto alle mosse che faranno le potenze che hanno o stanno per mobilitare assetti navali nel Mar Rosso, è legata l’entità di un flusso di cassa decisivo per il Cairo: le entrate del Canale di Suez, da dove – secondo i dati forniti dal New York Times – transita l’11% del commercio marittimo globale che è valso all’Egitto fino allo scorso agosto una media mensile di 862 milioni di introiti.
Da allora, come sappiamo, è intervenuta la minaccia degli Houthi, che secondo James Swanston, economista di Capital Economics, ha causato un calo dei traffici a Suez del 30%, facendo automaticamente precipitare del 40% le entrate.
Il crollo del turismo
L’Egitto è, insieme a Giordania e Libano, il Paese che più patisce la flessione di un turismo che aveva visto il 2023 cominciare con il promettente aumento del 20% dei ticket aerei con destinazione nella regione, secondo i dati di ForwardKeys citati dal Nyt.
Dopo il 7 ottobre le prenotazioni aeree per la Giordania sono scese del 18%, meno comunque di quel 25% registrato in Libano dove il turismo rappresenta un quinto del Pil.
Tante cancellazioni hanno interessato anche l’Egitto come segnala al quotidiano di New York Khaled Ibrahim, consulente di Amisol Travel Egypt, secondo cui nei resort di Sharm el-Sheikh il tasso di occupazione è molto inferiore al consueto.
E dire che prima del 7 ottobre ci si aspettava una crescita del settore in Egitto compresa fra il 30 e il 40% e che il Cairo ha incassato nell’anno finanziario terminato a giugno ben 13,6 miliardi dal turismo rispetto ai 10,7 dell’anno precedente.
Guai anche per il gas
Un ulteriore problema per il Cairo è stata la decisione presa da Israele il 9 ottobre di sospendere la produzione in quel campo di Tamar da cui estrae quel gas che rifornisce anche l’Egitto e da dove ora fluiscono verso lo stesso Egitto solo minime quantità dopo una temporanea e totale cessazione dell’export.
Prima del conflitto l’Egitto dipendeva da Israele per il gas in misura del 15%, spiegava a Reuters Siamak Adibi, capo del Middle East Gas Team presso FGE, e da quel Paese arrivavano 860 milioni di metri cubi di gas al giorno.
Adesso il problema di Tamar si riverbera sia su consumi interni, anche di quelle industrie energivore che rischiano di rimanere all’asciutto, nei terreni agricoli per i quali c’è carenza di fertilizzanti, e su una mancata riesportazione che priva l’Egitto di un’ulteriore fonte di valuta pregiata.