Nonostante siano passati oltre sei mesi dalla fine delle politiche “zero Covid” in Cina che ne hanno terrorizzato la popolazione e dissanguato l’economia, il Dragone stenta a riprendersi. Secondo un recente articolo dell’economista Adam S. Posen, presidente dell’Istituto per l’Economia Internazionale Peterson, pubblicato sulla prestigiosa rivista Usa Foreign Affairs, questo risultato non può sorprendere, essendo figlio di una stretta autoritaria sulla società e sull’economia cinesi che non è cominciata con il lockdown del 2020 e successivi ma con le politiche repressive perseguite da Xi Jinping fin dal suo primo mandato. Politiche che hanno avuto l’effetto, destinato a essere duraturo, di soffocare il dinamismo economico della seconda superpotenza mondiale.
La mancata ripresa cinese dopo il Covid
Quando, alla fine del 2022, Pechino abbandonò repentinamente le politiche “zero Covid” che avevano fatto sprofondare l’economia cinese, molti analisti tirarono un sospiro di sollievo, pensando che una ripresa, benefica per la Cina come per l’economia globale, fosse alle porte.
Alimentata da alcuni indicatori come il rimbalzo del commercio al dettaglio e il ritorno del turismo interno, l’illusione lasciò presto spazio all’amara realtà evidenziata da un tasso di crescita del Pil nei primi due trimestri del 2023 decisamente inferiore alle aspettative.
La serietà del problema fu evidenziata anche dai dati molto bassi dei consumi e degli investimenti del settore privato, da inquadrarsi in tandem con l’aumento della propensione al risparmio delle famiglie.
Un problema che non comincia nel 2020
Il mancato ritorno alla normalità segnala, secondo Posen, un fatto, ossia che la stagione del Covid ha segnato un punto di non ritorno per l’economia cinese le cui radici risalgono a quando, nel primo mandato del Presidente Xi Jinping, il partito ha esteso enormemente il suo controllo.
Da allora i risparmi delle famiglie sono cresciuti di almeno il 50%; il consumo del settore privato è sceso di un terzo e continua a declinare riflettendo una debole domanda. Anche gli investimenti privati sono deboli e sono scesi addirittura di due terzi rispetto ai livelli del 2015.
Tutti questi elementi, secondo l’autore, denotano la condizione particolare in cui si trova oggi la Cina a cui Posen dà il nome di “long Covid economico’. Ma prima di farsi ingannare da quell’etichetta è bene ricordare che il male che affligge la Cina risale non al 2020 ma a ben prima, ossia alla torsione autoritaria del Paese sotto l’egida di Xi Jinping, che ha fatto tramontare definitivamente l’era dorata post Mao.
A tal proposito l’articolo ricorda come lo sviluppo economico nei regimi autoritari segue uno schema abbastanza prevedibile: in una prima fase le istituzioni lasciano fare e l’economia ne beneficia in termini di dinamismo e crescita; ma nella fase successiva, quando il regime si è assicurato il controllo del Paese, esso comincia a intervenire in modo sempre più arbitrario nell’economia.
In sostanza gli attuali mali della Cina risalgono al ripudio della politica del laissez-faire perseguita con le riforme di Mao e a scelte interventiste che influiscono negativamente sulla crescita.
Il pugno duro di Xi
Non molto tempo dopo il suo insediamento, nel 2013, Xi lanciò una poderosa campagna anticorruzione che fu accolta favorevolmente dalla popolazione. Pochi anni dopo il Presidente andò ancora oltre punendo quegli imprenditori come Jack Ma che avevano avuto l’ardire di criticare le politiche economiche del Partito.
Finché si trattava di colpire poche persone isolate e ricche, le scelte di Xi furono accolte positivamente dall’opinione pubblica, che però dovette ricredersi quando, col sopraggiungere del Covid, le politiche autoritarie del regime presero di mira le libertà di oltre un miliardo di persone.
La conseguenza, secondo Posen, è che i cinesi oggi, dopo aver sperimentato sulla propria pelle la scure dei lockdown, vivono in un clima di paura sconosciuto dai tempi di Mao. Il regime oggi si è messo sulla scia del Venezuela di Chavez e Maduro, della Turchia di Erdogan, della Russia di Putin e dell’Ungheria di Orbán: tutti Paesi i cui leader, dopo aver iniziato la propria parabola all’insegna del liberismo e delle aperture, sono ricorsi, una volta eletti per la terza o quarta volta, a politiche interventiste e oppressive.
Quando questo succede, le conseguenze economiche sono inesorabili. In una sorta di autoassicurazione, la popolazione aumenta la propria propensione al risparmio e diminuisce quella all’investimento e al consumo, evitando ogni genere di rischio e mordendo il freno alla crescita, proprio come accade dopo una crisi finanziaria. Questi in breve sono i sintomi del “long Covid economico” destinati a piagare la crescita economica cinese nel prossimo futuro.
La fiacchezza dell’economia della Cina è un’opportunità per l’America
Il long Covid economico della Cina presenta un’opportunità per gli Usa, chiamati ad approfittarne per cambiare la propria strategia, focalizzata finora sul contenimento dell’economia cinese.
Anziché perseguire politiche come i dazi, che procurano danni anche alla propria economia, Washington dovrebbe rimanere alla finestra ad osservare il suo principale concorrente che si rovina con le stesse mani rendendo il modello americano ancor più attraente di quanto non lo sia stato in passato. Dovrebbe, in altre parole, puntare a diventare la destinazione privilegiata per tutti gli asset economici cinesi in fuga dalla madre patria.
Questa è in fin dei conti – conclude l’economista – la lezione della Grande Depressione, dopo la quale furono evidenti le differenze tra la sbiadita risposta dei regimi fascisti europei alla conseguente incertezza e quella di un’America ritornata poderosamente sul virtuoso sentiero della crescita.