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Ecco messaggi e minacce di Kim Jong-un a Trump nel discorso di capodanno

Il Punto di Marco Orioles

 

Non è passato inosservato il discorso di capodanno del leader della Corea del Nord Kim Jong-un. Un discorso zeppo di messaggi rivolti agli Stati Uniti di Donald Trump, alla Corea del Sud e alla comunità internazionale, tutti ancora in ambasce per quel programma nucleare e missilistico su cui il Maresciallo, dopo le aperture fatte l’anno scorso e culminate con lo storico summit con Trump del 12 giugno scorso, ha preso il più solenne impegno a non renderlo più una minaccia al mondo.

Trasmessa in diretta tv, la concione del Maresciallo si è rivelata uno dei consueti capolavori di ambiguità retorica nordcoreana, intriso di messaggi distensivi e di moniti. Indossando una grisaglia nera coronata da una cravatta grigia, anziché la tradizionale giubba maoista, e parlando da un ben arredato studio con i ritratti del nonno e del padre sullo sfondo, Kim ha voluto apparire nei panni dello statista che, mentre offre gli auguri alla sua popolazione, interloquisce con i leader mondiali offrendo loro un autorevole mix di esortazioni e ramoscelli d’ulivo.

Il pensiero del capo supremo è andato, anzitutto, a quel paese – gli Stati Uniti – che l’anno scorso, da nemici assoluti, hanno assunto il ruolo di partner in un processo di pace complesso e irto di ostacoli. A loro, Kim assicura di voler ” procedere alla denuclearizzazione, come promesso nel documento siglato a Singapore insieme a Trump. ”È l’incrollabile posizione del nostro partito e del governo della repubblica e la mia ferma volontà che i due paesi, come stabilito nella dichiarazione congiunta del 12 giugno (…) facciano dei passi per stabilire un regime permanente e stabile di pace e per giungere alla completa denuclearizzazione della penisola coreana”. A tal fine, promette Kim, la Corea del Nord promette che “non produrrà, non testerà né userà armi nucleari”, astenendosi finanche dal commettere il peccato capitale della proliferazione.

A tale disponibilità tuttavia, aggiunge Kim, Washington deve ora rispondere con altrettanta solerzia, prendendo “corrispondenti misure di fiducia e azioni pratiche”. Se lo farà, la Corea del Nord giura che “le relazioni bilaterali si svilupperanno meravigliosamente ad un ritmo veloce”. Il viatico perché tutto ciò avvenga è un nuovo summit tra lui e il capo della Casa Bianca. “Sono sempre pronto in qualsiasi momento nel futuro”, sottolinea il Maresciallo, “a sedermi con il presidente Usa, e lavoreremo sodo per produrre risultati che siano benvenuti dalla comunità internazionale”.

Ma gli Stati Uniti, precisa Kim, devono stare in guardia: l’apertura di Kim non è incondizionata. La Corea del Nord si riserva infatti il diritto di andare per la propria strada, seguendo quello che il presidente chiama un “nuovo percorso”, qualora l’America “continuasse a non mantenere le sue promesse e giudicasse male la pazienza del nostro popolo facendo richieste unilaterali e spingendo con sanzioni e pressioni”. Gli Stati Uniti sono esortati a “prendere misure sincere e azioni corrispondenti ai nostri eminenti e preventivi sforzi”: solo “allora le relazioni (bilaterali) potranno avanzare ad un ritmo veloce ed eccellente”.

Kim, insomma, rilancia l’iniziativa diplomatica ma dettando le sue condizioni: affinché si raggiungano gli obiettivi prefissati, pace e denuclearizzazione, gli Usa devono fare la loro parte. Cosa significhi, nel concreto, è presto detto: si tratta, per l’America, di smettere di pretendere dalla Corea del Nord che smantelli unilateralmente il proprio arsenale senza che gli Usa facciano altrettanto con l’ombrello nucleare posto a difesa degli alleati di Corea del Sud e Giappone, e soprattutto far cadere quelle sanzioni varate a più riprese dalle Nazioni Unite per sanzionare i provocatori test missilistici e nucleari in cui la Corea del Nord indulgeva fino agli ultimi mesi del 2017.

Quella di Kim appare, a ben vedere, anche una dichiarazione d’impazienza. Dal giorno del summit di Singapore, le trattative tra Stati Uniti e Corea del Nord si sono arenate, e né gli uni né l’altra hanno ottenuto quel che speravano. Ecco perché Kim rilancia con la proposta di un nuovo faccia a faccia con il leader americano, da cui spera di ottenere quelle concessioni che gli esponenti dell’amministrazione Trump impegnati nel negoziato sono riluttanti a offrire. Non è stato lo stesso Trump, d’altra parte, a dire che lui e Kim si “sono innamorati”?

La Corea del Nord, insomma, rilancia. E mostra le carte. Ma al di là del consueto tweet di Trump, che ribadisce la volontà di incontrare quanto prima il suo collega, gli Stati Uniti decidono di non rispondere. È facile intuire che, prima di rilasciare dichiarazioni ufficiali, l’amministrazione Trump voglia scandagliare in lungo e in largo il discorso di Kim e capire di quante e quali trappole sia disseminato.

In effetti, a ben vedere, le parole del Maresciallo celano significati che non vanno esattamente a genio a Washington. Dietro lo schermo delle profferte, si intravedono posizioni che non sono affatto in sintonia con quelle nutrite dall’amministrazione Trump. Che, se si è imbarcata volentieri nel negoziato con la Corea del Nord anche per sciogliere la tensione globale che si era creata sin dall’insediamento del tycoon a causa delle innumerevoli provocazioni militari dell’avversario, non lo ha fatto certo per il solo piacere di intrattenere relazioni affabili con un dittatore sanguinario. La posizione americana rimane inossidabile ed è quella che l’uomo più ascoltato da Trump sul dossier nordcoreano, il Consigliere per la Sicurezza Nazionale John Bolton, ha sottolineato al momento di fare il suo ingresso nel team presidenziale: Pyongyang deve aderire al “modello Libia”, ossia rinunciare – come fece il colonnello Gheddafi nel 2003 – unilateralmente e senza pretendere nulla ai suoi ordigni.

Ma è proprio questo lo scenario che la Corea del Nord rigetta con forza. Agli occhi del regime, il modello Libia ha ben altro significato. In Corea del Nord tutti sanno che fine fece Gheddafi dopo aver rinunciato alla sua polizza d’assicurazione nucleare: fu liquidato dopo un intervento militare guidato, sebbene “from behind”, dagli Stati Uniti. Proprio la fine che Kim e i suoi gerarchi non intendono fare. Dotarsi di armi atomiche, e della corrispettive capacità balistiche, ha significato per la Corea del Nord munirsi di uno scudo protettivo dalle mire aggressive degli Stati Uniti e dei suoi alleati asiatici. Uno scudo che potrebbe venire meno, fanno capire da Pyongyang, solo qualora gli avversari facessero altrettanto. Il che significa, in poche parole, che se Washington vuole la pace e la fine della minaccia nucleare del Nord, dovrà fare passi commisurati e impegnativi come il ritiro dei 28.500 soldati americani stanziati in Corea del Sud e l’allontanamento dalla penisola coreana di tutti gli armamenti strategici.

Condizioni che gli Stati Uniti non intendono contemplare. Non prima, cioè che la Corea del Nord dimostri tutta la sua buona volontà con atti concreti quali, anzitutto, la presentazione di un elenco completo dei siti proibiti e delle armi a sua disposizione e, quindi, la manifestazione tangibile di una disponibilità ad avviare un processo di disarmo monitorato dalla comunità internazionale. Tutti passaggi che rappresentano, dal punto di vista degli Usa, una condicio sine qua non.

Insomma, come ha notato ieri il New York Times, con il discorso di capodanno di Kim le relazioni tra Usa e Corea del Nord sono tornate al punto di partenza. Sono cioè ancora attaccate al palo in cui si trovavano quando, nel giugno scorso, Trump e Kim si sono incontrati a tu per tu e hanno preso un vago impegno a risolvere la controversia che li separa. Rimangono aperti, insomma, tutti gli interrogativi che hanno reso la questione nordcoreana il problema più ostico che Donald Trump sia stato chiamato ad affrontare da quando è diventato presidente. Solo un nuovo summit, probabilmente, riuscirà a sciogliere questo nodo.

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