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Ecco come Putin ha sedotto (corrotto?) le élite europee

L'articolo di Tino Oldani per Italia Oggi

 

Dopo la strage di civili a Bucha, un crimine di guerra compiuto dall’esercito di Vladimir Putin in spregio a tutte le convenzioni militari, l’Unione europea ha lanciato l’operazione «isolare Putin nel mondo». Per questo, la Commissione Ue, guidata da Ursula Von der Leyen, sta studiando un nuovo pacchetto di sanzioni economiche contro la Russia. Siamo così al quinto pacchetto, il che significa che i primi quattro non hanno piegato l’economia russa, né indotto Putin a desistere dall’aggressione militare in Ucraina. Anzi, grazie alle sanzioni, c’è chi, come Federico Fubini sul Corriere della Sera, sostiene che «la guerra è un affare per Putin»: gas, petrolio, carbone e le materie prime russe, dall’alluminio al nickel, costano più di prima, e dal loro export Mosca continuerà a incassare gli stessi 330 miliardi di dollari del 2020, se non di più. Ma come si spiega il flop delle ripetute sanzioni Ue?

Una prima risposta viene dall’esame di certi dettagli. Finora, per dirne uno, non è mai stata sanzionata la Sberbank, la maggiore banca russa, perché Berlino si oppone: la Germania dipende dal gas russo per oltre il 50% delle sue fonti di energia, e i suoi pagamenti passano da quella banca. Non solo. Il governo di Olaf Scholz continua ad opporsi alla proposta di Italia, Spagna e Francia di introdurre nell’Ue un prezzo calmierato del gas, per evitare il protrarsi della speculazione sui prezzi, che ha già fatto enormi danni a famiglie e imprese. L’alfiere di questa proposta è Mario Draghi, poiché anche l’Italia ha una forte dipendenza dal gas russo (40%). Ed è interessante notare che i principali media tedeschi, in un animato dibattito tv, si sono schierati a favore della proposta Draghi, e criticato il governo Scholz per la contrarietà. Ma niente, l’import del gas russo resta intoccabile per Berlino, un tabù politico come ai tempi di Angela Merkel e Gerard Schroeder.

In questo scenario, nel mio piccolo, provo nostalgia per i tempi in cui la Gran Bretagna faceva parte dell’Ue e litigava spesso con Berlino. Intendiamoci: fino al 24 febbraio, Londra era considerata una sorta di Mosca sul Tamigi, una Londongrad in cui gli oligarchi di Putin, con i proventi di gas e petrolio, avevano fatto il loro nido europeo più ricco, quotando alla City diverse società russe e acquistando di tutto, senza limiti di budget: i palazzi e le ville più prestigiose e costose, un quotidiano popolare come l’Evening Standard e la squadra di calcio Chelsea. Il tutto con l’approvazione della classe dirigente britannica, in testa i banchieri d’affari della City, avvocati, manager di pubbliche relazioni e uomini politici, tutti beneficiati da un fiume di denaro russo strabordante sotto forma di consulenze e mazzette di ogni tipo, perfino con gettoni di presenza di 500mila sterline per i Lord chiamati a far parte, come ornamento di prestigio, dei consigli d’amministrazione delle società russe quotate alla City. Una cuccagna grondante corruzione, a cui il premier Boris Johnson ha messo fine con i sequestri il giorno dopo l’invasione dell’Ucraina.

Quanto sia stato radicale, sul piano politico, il cambiamento di Londra rispetto a Berlino, lo conferma il fatto che il premier inglese ha immediatamente inviato armi di ogni tipo a Kiev e che ogni giorno telefoni al presidente ucraino Volodimyr Zelensky come un alleato. Di fatto, un ribaltamento dell’apertura britannica all’invasione degli oligarchi russi, durata circa vent’anni, durante i quali Putin si è comprato le élites economiche e politiche di Londra, ma anche nel resto d’Europa e in Usa, con un disegno geostrategico che ha nascosto a lungo: ricostruire la Russia dei tempi sovietici, fingendo al contempo di entrare in Occidente con i suoi oligarchi ex Kgb, messi a capo di società quotate a Londra, delle quali lo zar del Cremlino aveva assunto il pieno controllo fin dall’inizio del suo mandato.

Con quali uomini, con quali metodi di diffusa corruttela, e con quali omicidi questo disegno si è dispiegato negli anni lo racconta un saggio imperdibile di Catherine Belton, “Gli uomini di Putin – Come il Kgb si è ripreso la Russia e sta conquistando l’Occidente” (794 pagine, La nave di Teseo), che ha vinto il premio Magnitsky 2021 per il migliore giornalismo investigativo. «Questo libro», scrive Belton, per anni corrispondente da Mosca del Financial Times, «è cominciato come un tentativo di seguire l’acquisizione dell’economia russa da parte degli ex soci del Kgb di Putin. Ma è diventato un’inchiesta su qualcosa di più pernicioso: la cleptocrazia dell’era Putin mirava a qualcosa di più che riempire le tasche degli amici del presidente». Grazie al controllo dell’economia e del sistema politico e legale della Russia, Putin e i suoi compari del Kgb, diventati oligarchi, hanno costruito un regime autocratico che avrebbe usato i miliardi accumulati «per indebolire e corrompere le istituzioni e le democrazie dell’Occidente».

Scritto prima della guerra in Ucraina, questo saggio si avvale di interviste con alcuni oligarchi dissenzienti che rivelano episodi chiave della strategia geopolitica di Putin su scala mondiale. Un’analisi che ha messo in allarme gli Usa, tanto che Michael Carpenter, ex consigliere di Joe Biden, dopo avere letto il libro, ha scritto: «La Russia sta sostenendo il Front National in Francia, lo Jobbik in Ungheria, la Lega Nord e il Movimento cinque stelle in Italia. Stanno seguendo tutti questi partiti antisistema, di destra e sinistra. Il loro obiettivo è di mirare ai paesi europei e indebolire l’Ue. È una cosa molto seria, per cui Putin e i suoi oligarchi hanno speso molto tempo e denaro. Di fatto, hanno costruito un’autocrazia forte sul piano militare e finanziario, con l’obiettivo di ricostruire la Russia dei tempi sovietici, anche con la guerra e con le stragi di civili, pur di battere l’odiato Occidente, di cui hanno corrotto per anni una parte delle élites. Fermare Putin, ora, non sarà facile».

 

Articolo pubblicato su italiaoggi.it

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