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Giorgetti

Ecco come la Repubblica (di Molinari) si divide su Conte

Non c'è coincidenza di vedute ai piani alti del quotidiano la Repubblica nel giudizio sul premier Giuseppe Conte...

Con la sua “carta del silenzio”, come l’ha definita Claudio Tito commentando la frenata del presidente del Consiglio sulla strada delle esternazioni quotidiane, Giuseppe Conte ha spaccato la Repubblica di carta.

Al severo giudizio di Tito, che gli contesta di non volere “sporcarsi le mani” lasciando praticamente imputridire i problemi per intervenire solo in condizioni di emergenza, all’ultimo momento e nella logica andreottiana del “tirare a campare per non tirare le cuoia”, il vecchio fondatore Eugenio Scalfari ha contrapposto un giudizio indulgente, “sostanzialmente positivo” su Conte. Che, non avendo alle spalle “un partito del quale sia il principale esponente”, data la condizione quanto meno caotica del movimento grillino che lo ha portato a Palazzo Chigi, si trova spesso in “gravi difficoltà”. Dalle quali si difende come può guidando così un “governo discreto”. Ce ne sono stati sì di “migliori” nella storia “moderna” d’Italia “ma soprattutto di peggiori”, come si dovrebbe continuare a insegnare nelle scuole, se riusciranno davvero a riaprire nei tempi promessi dalla ministra competente Lucia Azzolina. Che – sia detto per inciso – a vederla e sentirla nei salotti televisivi mi fa pensare più a una imitatrice che alla ministra vera, autentica della Pubblica Istruzione.

Purtroppo la lettura dei giornali non mi ha dato notizie, o impressioni, più consolanti sulla Repubblica: quella vera, non di carta, presieduta al Quirinale da Sergio Mattarella. Al quale Ugo Magri sulla Stampa ha attribuito la convinzione – che mi permetto di non condividere – di un Parlamento non minacciato di delegittimazione da una vittoria del sì al referendum confermativo del 20 e 21 settembre sul taglio di 345 dei suoi attuali 945 seggi elettivi.

Diversamente dal predecessore, e collega di partito, Oscar Luigi Scalfaro, che nel 1994 sciolse le Camere, pur elette meno di due anni prima, per l’intervenuto cambiamento della legge elettorale sotto la spinta referendaria del 1993, Mattarella questa volta si risparmierebbe uno scioglimento anticipato per la perdurante presenza di una maggioranza di governo, che sarebbe l’attuale, per quanto malmessa secondo la rappresentazione della Repubblica di carta.

Sul piano storico, diciamo così, contesto il ricordo attribuito a Mattarella perché nel 1994 una maggioranza a favore della prosecuzione della legislatura col governo di Carlo Azeglio Ciampi c’era, allertata ogni mattina dal povero Marco Pannella con assemblee di parlamentari contrari alle elezioni anticipate. Ma Scalfaro non volle sentir ragioni e spinse Ciampi alle dimissioni per il ricorso immediato alle urne reclamato soprattutto dal Pds-ex Pci di Achille Occhetto, illuso di vincere nonostante la “discesa in campo” annunciata da Silvio Berlusconi.

Sul piano non storico ma pienamente politico sarebbe il caso di segnalare a Mattarella la delegittimazione del Parlamento attuale risultante dal giudizio che ne dà sulla prima pagina il giornale più contiano e grllino fra tutti quelli che si stampano in Italia: Il Fatto Quotidiano diretto da Marco Travaglio. Che, ancora entusiasta delle forbici e delle sagome delle poltrone da tagliare esposte davanti a Montecitorio dai pentastellati dopo l’approvazione della loro riforma, ha liquidato le Camere attuali come un Parlamento dove “un terzo è di troppo”, composto da “assenti, peones e fannulloni”.

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