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Xi

Ecco come la Cina tiene a bada gli Usa in Asia

Che cosa cela l'accordo commerciale di libero scambio tra 15 paesi dell'area Asia-Pacifico voluto dalla Cina. L'articolo di Tino Oldani per Italia Oggi

La Cina di Xi Jinping si sta rivelando sempre più il principale motore del cambiamento geopolitico mondiale. Lo conferma il grande accordo commerciale di libero scambio, appena firmato in videoconferenza, tra 15 paesi dell’area Asia-Pacifico, accordo che vale il 30 per cento del pil mondiale e coinvolge circa 3 miliardi di persone. Numeri che fanno di questo accordo la più grande intesa commerciale a livello mondiale. Sul piano strategico, è un colpo da k.o. inferto da Xi Jinping agli Stati Uniti di Donald Trump, che negli ultimi quattro anni ha perseguito nei confronti della Cina e del resto del mondo, compresa l’Europa, una politica di tipo protezionistico, imponendo dazi in nome del motto «America first». La batosta inflitta agli Usa è resa ancora più manifesta se si considera che perfino due loro alleati storici in Asia, come Giappone e Corea del Sud, hanno firmato l’accordo con la Cina, di cui il Giappone è considerato un avversario da secoli.

È impressionante la rapidità con cui Pechino ha ribaltato lo scenario commerciale dell’area Asia-Pacifico. Quattro anni fa, appena eletto, Donald Trump annunciò che la sua prima decisione sarebbe stata la cancellazione del Tpp (Trans Pacific Partnership), un trattato di libero scambio promosso da Barack Obama, che coinvolgeva 12 paesi affacciati sull’oceano Pacifico, con l’esclusione della Cina. Guidato dagli Stati Uniti, quell’accordo valeva circa il 40% dell’economia mondiale e comprendeva Australia, Brunei, Canada, Cile, Giappone, Malesia, Messico, Nuova Zelanda, Perù, Singapore e Vietnam. Il Tpp era stato firmato nel febbraio 2016, ma non ancora ratificato da tutti i paesi aderenti in novembre, quando Trump fu eletto. La sua cancellazione, all’inizio del 2017, ha aperto un’autostrada alla diplomazia di Pechino, che in meno di quattro anni è riuscita a soppiantare gli Usa nel ruolo di paese guida delle relazioni commerciali ed economiche dell’intera area Asia-Pacifico.

L’accordo, denominato Regional Comprehesive Economic Partnership (Rcep), con base ad Hanoi in quanto il Vietnam è presidente di turno dell’Asean (Associazione delle nazioni del sud-est asiatico), associa i dieci paesi del sud-est asiatico (Brunei, Cambogia, Indonesia, Laos, Malaysia, Myanmar, Filippine, Singapore, Thailandia e Vietnam), più Cina, Giappone, Corea del Sud, Nuova Zelanda e Australia. L’India, pur avendo partecipato ai negoziati, non vi ha per ora aderito in quanto teme conseguenze negative per la propria bilancia commerciale, soprattutto nel rapporto con la Cina, ma non è escluso che possa farlo in futuro.

I 20 capitoli dell’accordo dettano nuove regole che vanno ben oltre l’abolizione dei dazi sul commercio, e riguardano settori strategici, quali: investimenti, commercio elettronico, appalti pubblici, proprietà intellettuale e agricoltura. I dazi sono aboliti al 90% e non al 100% a tutela di alcune politiche protezionistiche dei singoli paesi in determinati settori, in primo luogo l’agricoltura.

In buona sostanza, il messaggio politico di questo accordo è un rifiuto del protezionismo di Trump, che ha causato non poche turbolenze nei commerci dell’area Asia-Pacifico, al quale viene opposta una politica di libero scambio fortemente innovativa, da cui la Cina sarà con ogni probabilità la maggiore beneficiaria. Lo conferma il commento entusiasta del premier cinese Li Keqiang: «La firma del Rcep non è solo un traguardo epocale nella cooperazione dell’Asia orientale, ma è anche una vittoria del multilateralismo e del libero scambio».

Parole dal sapore quasi beffardo, se si considera che questo inno al liberismo commerciale viene da un premier comunista, e suona come una critica severa a un paese come gli Usa, considerato un baluardo della libertà anche in campo economico.

Che l’accordo dei 15 paesi rappresenti una sfida agli Usa, a Pechino lo dicono apertamente: il tabloid Global Times, considerato una voce del partito comunista, ha twittato che il Rcep rappresenta «un colpo al protezionismo e al bullismo economico degli Stati Uniti, e aiuterà la regione dell’Asia-Pacifico a prendere la leadership globale nella ripresa post-Covid-19 e a ridurre l’egemonia Usa nella regione».

Rimontare la china in Asia non sarà facile per gli Usa. La conferma di una politica anti-Cina è stato l’unico punto di vista comune tra Donald Trump e Joe Biden nel corso della campagna per la Casa Bianca. Un’identità di vedute probabilmente più apparente che reale. Non va dimenticato, infatti, che Biden è un politico di lungo corso, con 47 anni di politica alle spalle, ed ha avuto un ruolo di primo piano, quando era deputato, nel convincere il Congresso Usa ad aprire alla Cina le porte del Wto, l’organizzazione mondiale del commercio. Un passaggio chiave per l’economia cinese, che si concretizzò nel Duemila, favorendone il rapido decollo, dopo secoli di isolamento e povertà.

Grazie a quel ruolo e alla successiva nomina a vice di Barack Obama, Biden ha goduto di rapporti privilegiati con i vertici del partito comunista, dell’esercito e dei servizi segreti cinesi. Relazioni che, secondo i sostenitori di Trump, sarebbero servite al figlio Hunter per combinare affari personali con aziende cinesi legate al partito comunista. Accuse rimaste senza conseguenze, tipiche di una campagna elettorale dura, piena di colpi bassi.

Resta il fatto che quattro anni fa gli Usa sedevano a capotavola dell’accordo con i paesi del Pacifico, e la Cina era fuori, mentre ora a capotavola c’è la Cina e ad esserne fuori sono gli Usa. E tornare a quel tavolo non sarà facile per il nuovo capo della Casa Bianca, tantomeno con un ruolo leader, che appare ormai perso, forse non più recuperabile in un mondo che sta cambiando a grande velocità, un mondo dove il Covid-19 sta mettendo a dura prova le democrazie e la loro risposta economica, non sempre sufficiente (le liti nell’Ue sullo stato di diritto e il Recovery Fund ne sono una prova), mentre non sembra avere scalfito la ferrea governance della Cina.

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