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Giorgetti

Draghi, i piccioni e la Ferrari

Mario Draghi fra il tiro al piccione e la corsa in un'utilitaria. I Graffi di Damato

In questa settimana santa, o di passione, la polemica politica continua a svilupparsi spesso coi toni e nei modi di una qualsiasi settimana ancora di Carnevale. Lo dimostra quel titolo sparato con una ironia mal riuscita, se voleva essere ironia, su tutta la prima pagina di Libero. Che attribuendo praticamente al presidente del Consiglio tutte o gran parte delle responsabilità dei disagi procuratici non da lui ma dalla pandemia virale ostinata a perseguitarci, pur tra errori che, per carità, possono essere stati commessi ai vari livelli delle cosiddette autorità preposte, quindi anche ai più alti, gli rinfaccia in nero la “Pasqua di tumulazione” in arrivo. E in rosso spiega che “Cristo risorge, l’Italia no”.

Il direttore del Corriere della Sera, Luciano Fontana, cerca a suo modo di difendere Draghi da critiche, pressioni e quant’altro provenienti anche dall’interno della sua maggioranza, tanto estesa quanto complicata, spiegando a un lettore: “Ci possono essere naturalmente diversità di opinione in una maggioranza così vasta. E’ giusto che vengano discusse e affrontate e che il premier dia il suo indirizzo. Profondamente sbagliato è invece inaugurare un tiro al piccione e un fuoco incrociato giornaliero. Non è serio nei confronti delle difficoltà che stiamo vivendo”.

Mi sembra un commento azzeccato, anzi serio, al contrario del tiro al piccione in corso contro Mario Draghi. Di cui, peraltro, dopo avere permesso, condiviso e quant’altro le fluviali esternazioni del predecessore Giuseppe Conte, ora per fortuna alle prese silenziose col marasma grillino, si esaminano al microscopio aggettivi, sostantivi e mimiche delle conferenze stampa. Che pure qualcuno sospettava ch’egli non volesse fare chissà per quale paura o disegno perverso.

All’immagine del piccione sotto tiro usata dal direttore del Corriere il buon Massimiliano Panarari sulla Stampa ne ha preferito un’altra per rappresentare la situazione “eccezionale” e “anomala” in cui si trova il presidente del Consiglio ancora fresco di nomina e di fiducia parlamentare, si potrebbe dire anche se l’una e l’altra non sono proprio di ieri o di pochi giorni fa. Egli ha scritto, in particolare e con una certa efficacia, che il buon Draghi è un po’ come “un motore Ferrari inserito su un’utilitaria”, viste le condizioni in cui l’inquilino di Palazzo Chigi ha ereditato il sistema politico, e persino anche quello istituzionale. Che, non essendo nessuno riuscito ad ammodernare -mi permetto di ricordare- per le bocciature referendarie riservate dal popolo sovrano, come dice la Costituzione, cioè dagli elettori, alle riforme tentate sia dal centrodestra sia dal centrosinistra, funziona come funziona, cioè a scartamento ridotto.

All’annuncio della decisione del capo dello Stato di mandare finalmente a Palazzo Chigi Draghi con tutta la sua esperienza e il prestigio guadagnatosi a livello internazionale mi tornò in mente una foto, in particolare, fra quelle dell’assalto che nel 2015 a Francoforte l’allora presidente della Banca Centrale Europea durante una conferenza stampa aveva subìto da una giovane dimostrante caucasica, saltata per protesta sul tavolo per lanciargli addosso quelli che poi per fortuna si sarebbero rivelati solo coriandoli, e non proiettili. Draghi aveva fatto una faccia tra lo sgomento e il terrore: la stessa -immaginai- che dovette fare ricevendo da Mattarella in persona, come mi risulta, la telefonata con la quale veniva avvertito del compito che lo aspettava alla guida del nuovo governo italiano.

Buon lavoro, signor presidente del Consiglio.

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