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Cosa non va nel Dpcm sulla mobilità nel pubblico impiego

Il Dpcm sulla mobilità dei dipendenti pubblici aggredisce i sintomi e non le cause del problema.L'approfondimento di Massimo Balducci

Il 25 gennaio di quest’anno la Gazzetta Ufficiale (la GU 20 del 2024) ha pubblicato un DPCM (Decreto Presidente Consiglio dei Ministri) dedicato alla “Disciplina dei processi di mobilità fra pubbliche amministrazioni del personale non dirigenziale – equiparazione livelli di inquadramento”.

È dai tempi del primo governo Berlusconi del 1994 (ministro della Funzione Pubblica Giuliano URBANI) che si tenta di distribuire il personale nelle varie branche dell’amministrazione attraverso strumenti di mobilità. Con il Dlgs 165 del 2001 (il Testo Unico del Pubblico Impiego) verificare la disponibilità delle risorse ricercate attivando meccanismi di mobilità diventa  un passaggio obbligato prima di attivare la procedura di reclutamento di nuove risorse dall’esterno. Un ragionamento che sembra non fare una piega: prima di reclutare dall’esterno sembra ovvio andare a vedere se in qualche meandro delle nostre amministrazioni non esista già quello che stiamo cercando e, per di più, sia sottoimpiegato.  Qualcosa, comunque, non deve aver funzionato in questo meccanismo che, a prima vista, sembrerebbe ovvio. Tanto è vero che, con la legge n. 56 del 19 giugno 2019 la procedura della mobilità non è più obbligatoria ma facoltativa. È interessante notare che il governo, nella sua politica di comunicazione, aveva definito questa legge come la legge della “concretezza”, una legge cioè che mira a superare i formalismi per affrontare direttamente i problemi concreti. Il che significa che ricercare di collocare là dove serve un dipendente dotato delle competenze necessarie al momento collocato dove non serve più viene considerato una formalità che allunga inutilmente i tempi del reclutamento!

COSA C’È DI SBAGLIATO NEL DPCM

Il DPCM del 25 gennaio è una ulteriore riconversione di marcia. Cerchiamo di capire cosa sta succedendo. Questo avanti-indietro   va ricondotto ad uno dei mali profondi della nostra amministrazione: il fatto che nella cultura profonda della nostra amministrazione non esiste separazione tra la funzione e il funzionario. Questa mancata distinzione risale ai meccanismi di reclutamento, quindi alla selezione (che da noi avviene tramite concorso dove ogni amministrazione organizza i propri concorsi) e all’inserimento sul lavoro (che nella nostra amministrazione avviene con il meccanismo dell’affiancamento).  Ogni amministrazione seleziona il personale utilizzando meccanismi di selezione (le prove di concorso) che non sono uniformi attraverso tutti i vari rami dell’amministrazione. Si tratta, per di più, di meccanismi che mirano a selezionare i candidati sulla base delle loro conoscenze teoriche. E’ solo nella fase di inserimento al lavoro che il neoassunto impara a fare quello che deve fare. Ne risulta che ogni branca della nostra amministrazione si trova ad avere operatori dotati di competenze sostanzialmente diverse tra loro per fare esattamente la stessa cosa.  Ne risulta che: (i) da una parte la mobilità intraamministrativa permette di evitare le defatiganti e costose procedure concorsuali  andando a pescare qualcuno che già opera nella pubblica amministrazione e (ii) da un’altra parte si resta delusi al momento dell’inserimento nel nuovo ufficio  del dipendente spostato grazie ai meccanismi della mobilità. Questa delusione è dovuta al fatto che il dipendente recuperato con il meccanismo della mobilità è abituato a lavorare secondo le prassi che ha appreso per affiancamento nell’amministrazione da cui proviene e che sono sostanzialmente diverse (molto diverse) dalle modalità operative della nuova amministrazione che lo ha risucchiato.

IL PROBLEMA DI FONDO DELLA MOBILITÀ

Ci troviamo di fronte ad un problema di fondo che va affrontato prendendo il toro per le corna. I tentativi di usare i meccanismi della mobilità non funzionano anche se risulta evidente che poter spostare il personale là dove ce ne è  bisogno è una necessità ineludibile. Cosa significa in questo caso affrontare il problema prendendo il toro per le corna? Prendere il problema per le corna significa affrontare i due problemi di fondo che abbiamo evidenziato: (i) uniformare i criteri di selezione definendo in maniera chiara le funzioni e le competenze dei vari profili al di là dell’amministrazione in cui sano impiegati in modo da uniformare le prove selettive e (ii) accoppiare la selezione con la formazione sul saper fare superando il medioevale meccanismo dell’affiancamento. Vediamo i due punti.

Per far sì che le prove di selezione siano uniformi attraverso tutto l’universo amministrativo per le stesse funzioni,  la Pubblica Amministrazione nel suo complesso deve dotarsi di un inventario di profili professionali che sia uniforme per tutte le amministrazioni. Deve cioè dotarsi di un inventario di profili omnicomprensivo. Qui voglio citare il fatto che all’ARAN (agenzia per la rappresentanza negoziale) si è già cominciato a lavorare in questo senso. L’ARAN in quanto depositaria della contrattazione relativa di tutte le branche dell’amministrazione si trova nella collocazione ottimale a questo scopo. Qui va ricordato il rapporto stilato Pierluigi Mastrogiuseppe e da Saverio Lovergine “Modelli di rappresentazione delle professioni e relative competenze: ipotesi di lavoro per la PA” rapporto redatto nell’ambito di una convenzione tra Presidenza del Consiglio dei Ministri -Dipartimento della Funzione Pubblica e Aran presentato nel 2017. Va anche ricordato che le pubbliche amministrazioni di Belgio, Francia e Germania hanno oramai da alcuni decenni elaborato inventari di questo tipo. In  una mia recente pubblicazione (M. Balducci, Un gatto che si morde la coda ovvero le riforme della pubblica amministrazione, Milano, Guerini) è possibile trovare la descrizione di questi inventari.

SELEZIONE E FORMAZIONE

Passiamo ora al secondo aspetto. Per superare il meccanismo dell’apprendimento per affiancamento bisogna accoppiare il processo di selezione con un processo di formazione sul saper fare. Il Decreto del 26 dicembre 2023 del Ministro Zangrillo, che prevede la possibilità di accoppiare selezione e formazione attivando meccanismi di apprendistato,  si muove in questa direzione pur restando un intervento episodico che andrebbe ricondotto a sistema. Non si tratta tanto di prevedere la possibilità di applicare anche al settore pubblico gli strumenti dell’apprendistato quanto di integrare selezione e formazione e concentrare la formazione non solo sui principi teorici ma anche sul “saper fare” operativo.

A questo punto bisogna fare una considerazione di natura generale. Per superare lo stallo che il processo di riforma della nostra amministrazione sta conoscendo dall’inizio di questo secolo bisogna fare un salto di qualità. Bisogna superare la prassi di interventi miranti a curare i sintomi e andare a fondo aggredendo le cause delle disfunzioni.

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