Una settimana fa l’Eurogruppo, che riunisce in modo informale i ministri delle Finanze dei 19 paesi dell’area euro, doveva nominare il nuovo presidente, al posto del portoghese Mario Centeno. In lizza, tre candidati: la spagnola Nadia Calvino, socialista; l’irlandese Paschal Donohoe, popolare; il lussemburghese Pierre Gramegna, liberale. I pronostici della vigilia davano per scontata la nomina di Calvino, conosciuta e stimata a Bruxelles, dove è stata per anni una dirigente dell’euroburocrazia, vicina al premier spagnolo Pedro Sanchez, socialista. Ufficialmente, la Calvino godeva dell’appoggio di quattro paesi: Germania, Francia, Italia e Spagna, che da soli rappresentano circa l’80% del pil europeo.
Ma quella che sembrava un’elezione decisa in partenza, si è conclusa con una sorpresa: dopo un primo giro a vuoto e il ritiro di Gramegna, alla seconda votazione è risultato eletto, con 10 voti contro 9, Paschal Donohoe, 45 anni, ministro dell’Economia a Dublino, esponente del Fine Gael, partito vicino al Ppe, il quale all’inizio delle votazioni aveva ricevuto l’appoggio esplicito di un solo paese, l’Austria. Anche se le votazioni dell’Eurogruppo sono segrete e, di norma, non si tiene alcun verbale delle riunioni, si è poi saputo che sul suo nome erano confluiti i voti dei paesi dell’Est Europa con governi a guida popolare, quali Slovacchia, Slovenia e Lettonia, a cui si erano aggiunti Cipro, Olanda, Belgio e Lussemburgo. Mistero sui due voti restanti per arrivare a dieci.
L’interpretazione a caldo è stata unanime: con Donohoe, che resterà in carica per due anni e mezzo, rinnovabili, hanno vinto i paesi del Nord Europa, contrari a concedere sussidi a fondo perduto del Recovery Fund ai paesi del Sud Europa, tra cui l’Italia del governo Conte-Gualtieri, che da quel voto è uscito sconfitto. Giudizio fondato, ma riduttivo, che trascura altri aspetti, utili per capire come mai il vertice odierno di Bruxelles sia così incerto.
Primo aspetto: se neppure l’appoggio di una leader influente come Angela Merkel è bastato alla Calvino, significa che, quando ci sono di mezzo centinaia di miliardi di euro, anche i paesi che di solito fanno da cani da guardia alla Germania (in testa Olanda e Austria) antepongono i loro interessi a tutto, compresa la solidarietà tra paesi, ormai inesistente. Un segnale negativo per la stessa Merkel, ma soprattutto per il premier Conte, che da mesi fa un affidamento totale sul Recovery Fund.
Secondo aspetto: nella passata legislatura europea, il Ppe aveva le presidenze di tre delle quattro istituzioni Ue: Commissione, Parlamento, Consiglio dei capi di Stato e di governo. In quella attuale, le presidenze popolari sono scese da tre a una: la Commissione, affidata a Ursula Von der Leyen. Ma ora, con Donohe all’Eurogruppo, il Ppe risale a due, prendendo il controllo della politica economica europea, soprattutto in materia di bilanci. Paradossalmente, come direbbe Bersani, pur avendo perso, la Merkel ha anche vinto.
Terzo aspetto: prima della votazione di una settimana fa, Calvino e Donohoe avevano rilasciato delle interviste programmatiche. La Calvino si era schierata a favore di una maggiore spinta al federalismo europeo, soprattutto in materia finanziaria, puntando su temi finora assai controversi: completamento dell’unione bancaria, con garanzie condivise sui depositi, e introduzione di un budget dell’eurozona, distinto dal budget dell’Ue a 27.
«Non aspettatevi che temi come questi tornino presto all’ordine del giorno sotto il regno di Donohoe», ha commentato Politico.eu, forte delle scelte di campo espresse dal ministro irlandese nelle interviste. Scelte di questo tipo: no a un bilancio comune dell’eurozona distinto da quello dell’Ue a 27; quindi, un no secco al federalismo europeo, ovvero agli Stati Uniti d’Europa vaticinati dai partiti progressisti-socialisti Ue e dagli europeisti senza se e senza ma, tra cui personaggi come Mario Monti, Romano Prodi, Enrico Letta, David Sassoli e Paolo Gentiloni. Federalismo che sarebbe la base politica ovvia degli eurobond, la cui richiesta non troverà mai ascolto dal nuovo capo dell’Eurogruppo.
Non solo. Al contrario di Gentiloni, Donohoe è un sostenitore dichiarato della tassazione agevolata alle imprese in vigore in alcuni paesi Ue, ovvero nei paradisi fiscali come la sua Irlanda, Olanda, Lussemburgo e Cipro. Di più: il nuovo capo dell’Eurogruppo è contrario pure alla web tax sui colossi di internet. L’esatto contrario di quanto vanno sostenendo da anni i paesi danneggiati dai paradisi fiscali europei, come Italia e Francia.
Ecco, d’ora in poi un personaggio siffatto gestirà l’agenda dell’Eurogruppo su temi come il bilancio Ue 2021-27, tuttora da definire; il pacchetto di oltre mille miliardi messo in campo dall’Ue per superare la crisi post Covid-19, più la riforma del patto di stabilità, che è l’insieme dei vincoli europei sui bilanci nazionali, patto sospeso fino al termine della pandemia. E per il governo Conte-Gualtieri, con Donohoe alle calcagna, non sarà una passeggiata facile, ma un percorso di guerra.
(Estratto di un articolo pubblicato su Italia Oggi; qui la versione integrale)